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L’interpello 788/2021 su criptovalute e fisco: cosa (non) cambia per le crypto

Il fisco italiano proprio in questi giorni ha pubblicato un nuovo documento di prassi in materia di criptovalute: si tratta della risposta ad interpello n. 788/2021, emessa lo scorso novembre dall’Agenzia delle Entrate.

Nessuna soluzione

Di questo documento nel mondo crypto si è subito parlato molto, anche se in realtà non offre alcun contributo significativo alla soluzione di questioni che sono sul tappeto da tempo. Questioni delle quali, nelle sedi istituzionali appropriate, nessuno sembra volersi fare carico per arrivare ad un inquadramento corretto e sufficientemente approfondito.

I temi sono sempre gli stessi: l’equiparazione delle criptovalute a valute estere, e di conseguenza, la tassazione delle plusvalenze maturate ai fini dell’imposta sui redditi; la presunta necessità dichiarazione delle criptovalute nel famigerato quadro RW, relativo alle attività finanziarie detenute all’estero.

Le soluzioni fino ad oggi fornite dal fisco ad entrambe le questioni sono davvero difficili da accettare e da condividere sul piano giuridico.

Tanta tetragona insistenza, su tesi sprovviste di argomenti sostanziali a sostegno, induce a pensare che si tratti di una vera e propria tattica: dato un problema complesso si forniscono risposte approssimative, spesso di comodo, poco o per nulla motivate, e si insiste fino allo sfinimento. Poi si attende che i contribuenti che ne subiscono gli effetti e i loro professionisti, a furia di sentire ripetere risposte identiche, a dispetto di qualunque ragionevole argomento contrario, piano piano finiscano per arrendersi, digerendole, per progressiva assuefazione.

Interpello 788/2021: cosa cambia per le crypto in Italia

Ma esaminiamola più da vicino questa nuova risposta ad interpello.

Sulla questione plusvalenze il fisco ribadisce l’equiparazione delle criptovalute alle valute estere, limitandosi a citare la precedente famigerata risoluzione n. 72/E del 2016 e a richiamare l’art. 67 co.1 lett. c) ter e l’art. 67 co. 1 ter del TUIR (il Testo unico delle imposte sui redditi) che regolamentano la tassazione dei redditi che si ottengono dalle plusvalenze su valute estere.

Ora, sull’equiparazione (o meglio, sull’impossibilità dell’equiparazione) delle criptovalute o delle valute virtuali a valute estere sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro. Chi sostiene che l’equiparazione delle criptovalute a valute estere non regge, ha dalla sua due importanti baluardi.

Uno è nella sentenza della Corte di Giustizia UE del 22 ottobre 2015, in causa C-264/14 (la famosa sentenza Hedqvist), che afferma chiaramente che le valute virtuali sono qualcosa di diverso dalle valute aventi corso legale, munite di capacità liberatoria.

Il secondo, ancora più puntuale, è dato dall’art. 2 del DPR 148/1988 (Testo unico delle norme di legge in materia valutaria) che stabilisce dettagliatamente cosa debba intendersi per valuta estera (in cui si parla nello specifico di “biglietti di banca e di Stato esteri aventi corso legale”), dalla cui formulazione si evince in modo inequivocabile che criptovalute e valute virtuali in generale sono qualcosa di completamente diverso dalle valute estere, per come il legislatore ha inteso qualificarle.

A queste due potenti obiezioni, né i documenti di prassi, né la giurisprudenza hanno opposto argomenti convincenti. E in realtà, non hanno opposto alcun tipo di argomento. Nonostante ciò, la linea ufficiale dell’Amministrazione finanziaria resta che le criptovalute vanno trattate come fossero valute estere.

Considerazioni simili valgono per il secondo tema, ovvero, quello della necessità o meno di dichiarazione delle criptovalute nel quadro RW. 

interpello 788/2021
In Italia le criptovalute sono paragonate a monete estere

Le crypto soggette a monitoraggio

La norma di legge ovviamente non fa alcuna menzione specifica né di criptovalute, né di valute virtuali. Nonostante ciò, l’interpretazione del fisco è che le criptovalute rientrerebbero nel perimetro di quelle attività finanziarie che, se localizzate all’estero, sarebbero soggette all’obbligo di monitoraggio. Ecco che nelle istruzioni di compilazione della dichiarazione dei redditi compare un’indicazione specifica sulla necessità di provvedere ad indicare tali asset nell’apposito quadro RW.

Questo però ancora non risponde alla domanda fondamentale: anche ammettendo che le criptovalute siano astrattamente inquadrabili come attività finanziarie (il che è tutt’altro che scontato), se e a quali condizioni possiamo dire che esse sono detenute all’estero?

Uno dei criteri che molti hanno ritenuto ragionevole è quello della disponibilità delle chiavi private: l’obbligo scatta a secondo che esse siano detenute dal contribuente italiano o da piattaforme estere.

Rispetto a questa prospettazione, fino a ieri il fisco italiano non aveva fornito alcuna risposta specifica. Da notare che, contrariamente a quella che è diventata una convinzione diffusa (quanto errata) la sentenza n. 1077/2020 del TAR Lazio, che si è occupata del tema rispetto alla legittimità delle istruzioni di compilazione della dichiarazione dei redditi, non ha affermato affatto l’esistenza di un obbligo incondizionato di inserimento delle criptovalute nel quadro RW.

Il TAR, invece, si è limitato ad affermare che la questione non poteva essere affrontata per ragioni processuali, anche legate alla sfera di giurisdizione del Giudice amministrativo.

Ora, la risposta ad interpello n. 788/2021, finalmente affronta esplicitamente il problema. Purtroppo, però, la soluzione offerta è immotivata e priva di argomenti logici o giuridici seri e sostanziali.

L’Agenzia sul punto afferma in modo lapidario e laconico:

si ritiene che per tutte le valute virtuali detenute dall’Istante, vale a dire anche per quelle di cui detenga direttamente la chiave privata, sussista l’obbligo di monitoraggio fiscale di cui al d.l. n. 167 del 1990 e conseguentemente, l’Istante sia tenuta alla compilazione del Quadro RW”.

Come e perché si arrivi a questa conclusione, tuttavia, non si spiega: è un dogma che implica un atto di fede. Peccato che l’Ocse, che ha affrontato la questione a ben altro livello, abbia fornito un’indicazione che va in direzione opposta.

All’articolo 4 del Model Tax Convention on Income and on Capital (Documento Ocse del 21.11.2017), infatti, si stabilisce che non dovrebbe sussistere un obbligo di inserimento nel monitoraggio fiscale per quelle criptovalute delle quali la persona fisica residente abbia la disponibilità della chiave privata.

A parte questo, comunque la si voglia mettere, è davvero difficile da giustificare a lume di logica l’idea che le criptovalute detenute in un wallet offline (magari un cold storage o un paper wallet) nella tasca di un contribuente italiano che dispone anche della chiave privata, possano essere qualificate come un’attività finanziaria estera: non si capisce cosa possa esserci di estero in tutto questo.

Insomma, nonostante questo nuovo documento di prassi, i problemi sul tappeto restano irrisolti, mentre ancora tarda a farsi sentire la voce della giurisprudenza tributaria.

Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta, avvocato tributarista in Milano, managing partner e fondatore dello studio legale tributario QRM&P, ha all’attivo molte pubblicazioni sugli aspetti legali e tributari di legal tech, intelligenza artificiale e criptovalute. Relatore in numerosi convegni sulla materia, tiene la rubrica “Tax & the city” per il quotidiano La Verità e scrive regolarmente per la rubrica Economia e tasse della testata Panorama. È membro della Commissione Giustizia Tributaria presso l’Ordine degli Avvocati di Milano ed è il referente della sede milanese dell’associazione interdisciplinare per lo studio e le applicazioni dell’intelligenza artificiale GP4AI (Global Professionals for Artificial Intelligence).
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