HomeBlockchainRegolamentazioneQuadro RW e staking, tanti dubbi dai recenti orientamenti del fisco italiano

Quadro RW e staking, tanti dubbi dai recenti orientamenti del fisco italiano

Nel corso dell’estate l’Agenzia delle Entrate si è scatenata con una raffica di documenti interpretativi, che si sono susseguiti tra luglio e agosto, nell’arco di pochi giorni di distanza, l’uno dall’altro, sull’applicazione della normativa fiscale in materia di criptovalute.

Più esattamente, si tratta di tre risposte ad interpello (la n. 956-448/2022, la 957-221/2022 e la 956-771/2022), e cioè, provvedimenti in cui il fisco fornisce la sua interpretazione su specifici quesiti posti da alcuni contribuenti, in presenza di situazioni in cui il quadro normativo è caratterizzato da condizioni di “obiettiva incertezza”, come recita l’art. 11 dello Statuto del contribuente che disciplina il diritto di interpello.

In questi atti (che vengono detti comunemente documenti di prassi) vengono affrontati alcuni temi che spiccano perché suscitano le costanti preoccupazioni di chi opera con criptovalute: il primo è quello della portata degli obblighi di monitoraggio fiscale (cioè l’obbligo di dichiarazione della detenzione di criptovalute nel famigerato quadro RW). Il secondo è quello della natura degli introiti che si ottengono come profitto delle operazioni di staking e quindi di come essi debbano essere inquadrati ai fini dell’applicazione dell’imposta sui redditi.

Di queste risposte ad interpello hanno parlato un po’ tutti in giro per il web, esperti e meno esperti, anche perché sul tema dell’obbligo di dichiarazione nel quadro RW il fisco ha dato un’indicazione che è stata letta come un cambio di rotta favorevole ai detentori di criptovalute: se le criptovalute sono detenute nei wallet di una piattaforma di exchange di diritto italiano, dice l’Agenzia delle Entrate, non sarebbe necessario dichiararle nel quadro RW perché non si configurerebbero come attività estere.

Calmata la bagarre dei commenti a caldo, proviamo a fare il punto della situazione.

La tassazione crypto in Italia: il quadro RW

Anche perché, si direbbe che ogni volta che l’Agenzia delle Entrate si avventura nel fornire interpretazioni che riguardano le criptovalute, anziché offrire un contributo di chiarezza e di certezze, finisca con il seminare ancor più dubbi e confusione, con conseguente agitazione dei contribuenti, siano essi operatori o semplici utenti.

Anche in questo caso, le risposte dell’agenzia fiscale italiana si sono lasciate dietro una scia di dubbi, perplessità ed incertezze.

Ora, prima di esaminare singolarmente le questioni e le tesi esposte dal fisco nostrano, occorre chiarire bene il valore e la portata di questo tipo di documenti.

Questo tipo di atti, che vengono comunemente definiti documenti di prassi, non hanno il valore di una fonte normativa: non sono una legge, né un regolamento. Non hanno neppure il valore, fortemente condizionante, di un precedente di giurisprudenza. Essi, quindi, non vincolano in nessun modo il contribuente. In verità non vincolano neppure i singoli uffici dell’Agenzia. Quindi ognuno di essi, trovandosi a gestire un controllo o una verifica in cui sorge una questione analoga a quella trattata in uno di questi documenti di prassi, può tranquillamente decidere in senso del tutto diverso rispetto alla soluzione fornita da una precedente risposta ad interpello.

Questi documenti, quindi, hanno un valore meramente orientativo. 

In effetti, anzi, non è raro che le soluzioni fornite nell’ambito di questo tipo di atti poi vengano disattese dagli stessi uffici quando svolgono una verifica, o vengano smentite dalla giurisprudenza delle corti tributarie di merito o anche dalla Cassazione.

L’unico effetto cogente che possono avere è a favore del contribuente ed è legato al principio dell’affidamento del contribuente previsto dall’art. 10 dello Statuto del contribuente (L. 212/2000).

Il comma 2, infatti, prevede che:

Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima”. 

In pratica, se un contribuente tiene una certa condotta, adeguandosi alle indicazioni di uno di questi documenti di prassi, anche laddove il fisco maturi una diversa interpretazione rispetto a quella precedentemente espressa, alla quale il contribuente (chiaramente, facendovi affidamento) si è attenuto, allora non potranno essere irrogate sanzioni a carico di quest’ultimo né richiesto il pagamento di interessi.

I tributi eventualmente dovuti, tuttavia, restano comunque dovuti.

tassazione crypto italia
Le imposte sulla detenzione crypto in Italia

L’interpretazione del fisco, tra verità, dubbi e perplessità

Quindi, poniamo, ad esempio, che un documento di prassi affermi che un certo tributo, a certe condizioni, non va pagato, e il contribuente confidando sulla bontà di questa indicazione, non lo paghi. Qualora successivamente il fisco cambi idea e stabilisca che quell’interpretazione era sbagliata, e quindi, quel tributo a quelle condizioni in realtà va pagato, al contribuente potrà essere richiesto il pagamento di quel tributo (ammesso che nel frattempo non si sia prescritto), ma non potrà essere applicata alcuna sanzione e non sarà tenuto a versare interessi.

Detto questo, nonostante il modesto valore di questo tipo di documenti, è abbastanza naturale che la loro emanazione crei un certo fermento, perché nel mondo crypto la confusione e il vuoto normativo regnano sovrani, e quindi l’attenzione a qualunque tipo di indicazione è spasmodica.

Dunque, nel primo dei tre documenti una delle questioni era costituita dalla necessità o meno di provvedere a tale dichiarazione nel caso in cui il wallet fosse gestito da una piattaforma di trading di diritto italiano.

In questo caso, in effetti abbiamo una specie di colpo di scena, rispetto alla tendenza dell’Agenzia ad ampliare (anche in modo irragionevole e per lo più immotivato) la sfera di applicazione degli obblighi fiscali in capo al contribuente.

Nel caso della questione della compilazione del quadro RW, i più ricorderanno che con la risposta ad interpello 788/2021, l’Agenzia aveva affermato, in tempi piuttosto recenti, che non rileva dove siano detenute le chiavi private, e che anche se le stesse siano detenute in Italia, da soggetto qui fiscalmente residente, l’obbligo di dichiarazione sussisterebbe in ogni caso.

Come si arrivasse a questa conclusione non è stato spiegato.

Il nuovo orientamento, tuttavia, sembrava avvalorato da un non meno discutibile orientamento di giurisprudenza: la sentenza 1077/2020 del TAR Lazio che ha affermato che le valute virtuali sarebbero da qualificare come attività da dichiarare nel quadro RW. 

Per la verità, ai più è sfuggito il fatto che la sentenza non ha affermato affatto che esse vanno dichiarate sempre e comunque. Essa, cioè, può essere letta anche nel senso che tali asset vanno dichiarati solo se e quando hanno collocazione all’estero. Tale sentenza, infatti, non affronta esplicitamente la questione dei casi in cui le valute virtuali vadano considerate detenute all’estero o in Italia, ma si limita a qualificarle come attività soggette all’applicazione degli obblighi di monitoraggio.

Ebbene, con la risposta ad interpello 956-448/2022 (rinumerata per la pubblicazione in 433/2022) l’Agenzia delle Entrate ha affermato che il contribuente non è gravato dagli obblighi di monitoraggio che comportano la necessità di dichiarazione nel quadro RW, quando si affida a piattaforme di diritto italiano, con residenza fiscale in Italia.

Questo orientamento viene fondato da una parte, sul presupposto che la chiave privata è nella piena disponibilità di un soggetto residente in Italia; dall’altra parte sul presupposto che il contribuente nei confronti della piattaforma vanta semplicemente un diritto di credito ma non sarebbe detentore di un asset patrimoniale o finanziario qualificabile come estero.

Il ragionamento merita un approfondimento.

Come trattare le crypto detenute in una piattaforma di diritto italiano

La seconda parte del ragionamento, ossia, il concetto secondo cui il contribuente che si affidi ad una piattaforma di diritto italiano sarebbe titolare di un semplice diritto di natura obbligatoria (derivante da uno specifico rapporto contrattuale) e non detentore di asset patrimoniali o finanziari, appare certamente sensato e condivisibile.

È chiaro, infatti, che quando la piattaforma ha l’effettiva detenzione di una criptovaluta, perché essa è associata a wallet di cui la piattaforma stessa ha le chiavi di accesso, su quella criptovaluta l’utente finale vanta solo il diritto che si dia esecuzione ad ordini (cessione, conversione, trasferimento, etc.) che tuttavia non esegue direttamente, ma fanno sorgere obbligazioni in capo alla piattaforma verso l’utente, sulla base del contratto in essere tra queste due parti.

Questo, però, apre una questione anche sui rapporti con le piattaforme estere: se è vero che il rapporto contrattuale che si instaura con la piattaforma comporta che il contribuente non sia detentore di asset patrimoniali o finanziari, ma solo titolare di obbligazioni civilistiche, questo deve valere, né più né meno, tanto per i rapporti con piattaforme italiane quanto con piattaforme estere.

Come fare nel caso in cui gli asset sia detenuti in piattaforme estere

Se si tratta di piattaforme estere, quindi, per capire se vi è obbligo di dichiarazione nel quadro RW il focus si deve necessariamente spostare dalle criptovalute al rapporto contrattuale.

Di conseguenza, occorrerà capire se quello specifico rapporto contrattuale, a seconda di come è strutturato, possa rientrare nel campo di applicazione dell’art. 4 co. 1 D.L. 167/1990 (poi convertito in L.n. 227/1990) e quindi si debba fare rientrare tra gli “investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia”.

Tale specifica questione, finora, non è mai stata analiticamente affrontata.

È facile pensare che il fisco italiano sposerà un’interpretazione che mira ad includere i rapporti contrattuali con piattaforme estere nel campo di applicazione degli obblighi di monitoraggio, ma si apre un campo di discussione molto ampio, in cui sono possibili interpretazioni molto sostenibili che vanno in senso diametralmente opposto.

E passiamo ora alla prima parte del ragionamento: e cioè quella secondo cui gli obblighi di monitoraggio non scatterebbero anche per il fatto che le chiavi private dei wallet sono detenute da una piattaforma con sede fiscale in Italia, quindi non all’estero.

Questo concetto cambia tutto, perché attribuisce rilievo alla questione se le chiavi private siano detenute in Italia o all’estero ai fini della qualificazione come estera la localizzazione dell’asset costituito dalle valute virtuali e, di conseguenza, della sussistenza o meno dell’obbligo di dichiarazione.

Ora, in primo luogo, l’assunto così recentemente affermato dall’Agenzia delle Entrate, va in diretta contrapposizione con il precedente orientamento espresso nella risposta ad interpello […]: qui, infatti, si afferma che le criptovalute vanno dichiarate punto e basta. A prescindere dalla localizzazione, in Italia o all’estero, della detenzione delle chiavi private.

In secondo luogo, se il principio vale per le piattaforme con sede fiscale in Italia, per quale motivo non dovrebbe essere applicato a tutti i soggetti giuridici, diversi dalle piattaforme, che hanno sede o residenza fiscale in Italia, incluse le persone fisiche che le detengono?

Dubbi che si accavallano a dubbi, la generazione dei quali ci dice quanto urgente sia un chiarimento a livello legislativo.

Come anticipato, il tema degli obblighi di monitoraggio, tuttavia, non è il solo ad essere stato affrontato da questa raffica di risposte ad interpelli.

Affronteremo i restanti temi con la prossima uscita di questa rubrica.

Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta, avvocato tributarista in Milano, managing partner e fondatore dello studio legale tributario QRM&P, ha all’attivo molte pubblicazioni sugli aspetti legali e tributari di legal tech, intelligenza artificiale e criptovalute. Relatore in numerosi convegni sulla materia, tiene la rubrica “Tax & the city” per il quotidiano La Verità e scrive regolarmente per la rubrica Economia e tasse della testata Panorama. È membro della Commissione Giustizia Tributaria presso l’Ordine degli Avvocati di Milano ed è il referente della sede milanese dell’associazione interdisciplinare per lo studio e le applicazioni dell’intelligenza artificiale GP4AI (Global Professionals for Artificial Intelligence).
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