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Lo Schema Ponzi dello pseudo-giornalismo su Bitcoin

Guest post by Giacomo Zucco, founder di BHB Network and Educator di Bcademy

Quanto segue non vuole essere una risposta all’articolo “Lo schema Ponzi dei Bitcoin”, pubblicato sabato scorso su La Repubblica a firma Alessandro Guzzini. Intendo meramente prendere spunto da quel (pessimo) articolo, usandolo come esempio per un discorso più generale, riguardante il problema del giornalismo a tema Bitcoin.

Read this article in the English version here.

Il giornalismo, vero o presunto, è da sempre problematico quando tratta materie specialistiche, perché noi umili lettori ci troviamo in quei casi di fronte ad un dilemma: fidarci del fatto che chi scrive sia effettivamente uno specialista, o investire tempo, risorse ed energie nel diventare specialisti noi stessi. 

La prima opzione sarebbe preferibile, anche solo per una banale questione di divisione del lavoro: non possiamo essere tutti specialisti in tutto. La nostra stessa civiltà si basa sulla specializzazione e suddivisione dei ruoli. Come decidiamo, però, se lo specialista che scrive è effettivamente tale? 

Molto spesso ci affidiamo ad una rete di reputazione pubblica, che soffre però di un grave problema di circolarità: alcuni gruppi di pseudo-specialisti tendono a legittimarsi a vicenda, spesso anche trasversalmente alle varie materie e con logiche molto distanti dalla competenza nel merito. Possiamo vedere gli scarsi risultati di questo metodo nei casi (necessariamente rari) in cui i “giornalisti” affrontano un tema su cui ci è capitato di diventare competenti per davvero: quasi sempre rabbrividiamo di fronte al cumulo di inesattezze, imprecisioni, esagerazioni, fraintendimenti o addirittura menzogne che vengono scritte sul “nostro” campo di competenza. 

Ma poi voltiamo pagina e istintivamente tendiamo a dimenticare la lezione appresa, illudendoci invece che la competenza migliori su altri temi che padroneggiamo meno. Il celebre fisico americano Murray Gell-Mann ha dato il nome (per tramite dello scrittore Michael Crichton) a questo tipo di fenomeno, chiamato “Gell-Mann Amnesia effect”: quando usciamo dal nostro campo di competenza tendiamo a fidarci di nuovo dei giornalisti, anche se ogni qual volta eravamo nel nostro campo di competenza abbiamo sempre verificato la loro assoluta inaffidabilità.

Se tale effetto riveste una sua importanza più generale, nel caso di Bitcoin l’inaffidabilità in questione è ancora più drammatica, accentuata, rilevante e ricca di conseguenze. Questo accade per una serie di motivi:

    • Bitcoin rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo, con poca attinenza con quanto esiste e ci è familiare, è arrivato sulle scene da un tempo tanto breve da non lasciare ancora l’occasione a meccanismi di autorevolezza e reputazione (per quanto essi stessi spesso fallaci) di formarsi e consolidarsi;
    • Bitcoin è incredibilmente multidisciplinare e coinvolge allo stesso tempo argomenti come crittografia applicata, teoria dei giochi, sicurezza informatica, elettronica di precisione, pratiche di sviluppo software open-source, storia e teoria monetaria, ingegneria dei sistemi distribuiti e altro ancora, in modo talmente intricato che anche un rinomato esperto in uno dei campi suddetti spesso e volentieri non capisce il contesto portato dagli altri ambiti;
    • Bitcoin tocca (e minaccia) interessi importanti, dalle politiche monetarie della banche centrali a quelle di monitoraggio finanziario dei regolatori nazionali, dal business dei pagamenti a quello del credito, tanto che anche persone in grado di capire il fenomeno hanno spesso incentivi molto forti a non capirlo.

Come superare allora questa circolarità, imparando a giudicare, nel merito, il parere di qualche giornalista (o presunto tale) a proposito di Bitcoin? 

Se io mi limitassi ad asserire, in qualità di specialista, che l’articolo che stiamo usando da “cavia” è pieno zeppo di inesattezze, errori e falsità fattuali, il tutto si ridurrebbe semplicemente ad un caso di “la mia parola contro la sua”, dove io sono il classico Signor Nessuno, mentre la controparte è a quanto pare un presunto genio della finanza

Non esiste una formula magica, ma esistono almeno tre metodologie per identificare eventuali “campanelli di allarme”, ciascuna delle quali richiede risorse e sforzi non indifferenti.

La prima metodologia riguarda una valutazione sulla coerenza logica interna di quanto scritto. Si tratta di una verifica, per così dire, a-contestuale, che non richiede alcuna diretta competenza sui temi trattati. Le leggi della logica infatti sono universali e indipendenti dai singoli ambiti di specializzazione. 

Se chi scrive si contraddice logicamente, possiamo usare la cosa come red flag, un possibile indizio di poca serietà, o quantomeno di un certo bisogno di creare fumo retorico che spesso si accompagna alla mancanza di “arrosto” fattuale. Nell’articolo che vogliamo usare ora come cavia, possiamo trovare facilmente simili indizi. L’autore, ad esempio, regala perle come la seguente: 

“Cosa succederebbe infatti qualora rallentasse il numero di nuovi utenti di bitcoin? Semplice, il prezzo sarebbe destinato a crollare. Se infatti le possibilità di guadagno del bitcoin sono tutte virtuali e legate all’ingresso di nuovi adepti, il costo dell’infrastruttura è del tutto reale e aumenta man mano che cresce il numero di utenti ed il prezzo unitario del bitcoin.”

Proviamo ad analizzare logicamente la frase. Si afferma che il costo dell’infrastruttura Bitcoin cresce con il numero di utenti (affermazione in generale falsa sul piano tecnico, ma per ora ignoriamo le questioni di merito per rimanere sulla pura analisi di coerenza logica) e con il prezzo unitario dell’asset (affermazione nel merito tecnico abbastanza onesta, anche se richiederebbe qualche precisazione). 

Se ne deduce che se “il numero di nuovi utenti rallentasse” (un numero non può rallentare, ma proviamo a fare gratuitamente un po’ di lavoro dei correttori di bozze de La Repubblica, sostituendo la frase incriminata con “la crescita del numero di utenti rallentasse”, più sensata) il prezzo dovrebbe crollare. 

Questo è chiaramente quello che in logica si definisce non sequitur: in base alle premesse usate si potrebbe presumere che il rallentamento della crescita di utenti porterebbe eventualmente al rallentamento della crescita del prezzo, non alla sua decrescita, tantomeno al suo crollo. 

Anche tralasciando tale salto logico, la logica delle premesse ci porta a dire che tale crollo, anche ammesso che si produca, porterebbe anche a un crollo dei costi dell’infrastruttura, non ad un loro mantenimento, o ad una loro crescita, come ipotizzato. Insomma: la confusione e l’auto-contraddizione regnano sovrane. Non si tratta, ovviamente, di una confutazione delle tesi dell’autore, ma come detto di un campanello d’allarme che fornisce un’euristica molto utile. 

Simili contraddizioni logiche, verificabili in modo a-contestuale, non si trovano solo all’interno dello stesso articolo, ma anche tra diversi articoli dello stesso autore. Se, difatti, il pezzo in esame si basa sul fatto che Bitcoin non abbia alcuna utilità effettiva, al di fuori di una cieca espansione speculativa di uno schema piramidale, altri contributi precedenti del presunto esperto basano la loro tesi allarmistica sul fatto che Bitcoin venga effettivamente usato da utenti in carne ed ossa per “effettuare transazioni non tracciate anche per importi sostanziali”.

La seconda metodologia riguarda una verifica delle affermazioni dell’autore su temi più generali e, sperabilmente, più familiari al lettore navigato.

Un caso riguarda l’anomala definizione di schema Ponzi utilizzata dall’autore: identifica infatti con questa espressione qualunque bene economico la cui crescita di prezzo di verifichi a causa di un’espansione della domanda, a parità di offerta. Peccato che questo riguardi sostanzialmente tutti i beni economici, dalle security finanziarie, alle valute nazionali, alle commodity, agli oggetti da collezionismo. 

Se il prezzo di un bene sale a parità di offerta, o rimane stabile all’aumento di tale offerta, è precisamente a causa di un aumento della domanda, o, come la definisce l’autore, “della presenza di un flusso di acquirenti in grado di sostenerne il prezzo”

Alcune particolari asset class sono considerate adatte ad un investimento perché remunerano il rischio con flussi finanziari (rendite, interessi, dividendi, ecc…) ma molte altre, dall’oro, al grano, alle valute nazionali scambiate sui mercati forex, generano guadagni per l’investitore esclusivamente per l’aumento di domanda a fronte dell’offerta: la dinamica che Guzzini identifica come propria di uno schema Ponzi.

In realtà, chiunque conosca la materia sa bene che l’espressione indica uno specifico schema fraudolento in cui i proventi della vendita di un diritto finanziario a nuovi investitori vengono usati per fingere una rendita per gli investitori precedenti, in un ciclo di menzogne che ha di norma breve durata, richiede una precisa regia centrale e funziona prevalentemente simulando quei tipi di strumenti finanziari che, a differenza di bitcoin, oro o altre commodity, dovrebbero garantire flussi finanziari di qualche tipo, in luogo di un semplice apprezzamento sul mercato. 

Si potrebbe considerare come una provocazione intellettuale divertente, quella secondo cui tutti i beni economici (incluse quindi le principali valute il cui prezzo sale e scende assieme alla domanda) sono in realtà schemi Ponzi che non crollano. 

In effetti, alcuni schemi nazionali di previdenza pubblica considerati legittimi, istituzionali, rispettabili e sicuri, si basano esattamente sull’impiego dei versamenti dei nuovi partecipanti per simulare immaginarie rendite nei confronti dei partecipanti precedenti.

Ma identificare come tale una sola commodity, bitcoin, escludendo invece tutti gli altri beni che seguono esattamente la stessa medesima dinamica di apprezzamento (o deprezzamento), è semplicemente disonestà intellettuale, non provocazione. 

Un secondo caso riguarda la storia monetaria: l’autore lascia chiaramente intendere che solo titoli rappresentativi di collaterale, convertibili con qualcosa, possono fungere da moneta. Chiunque conosca la materia sa che questo è doppiamente falso. 

Da un lato perché, per la grandissima parte della storia degli strumenti monetari, la funzione di denaro é stata svolta stabilmente (nel caso dei metalli preziosi addirittura per millenni) proprio da beni economici che non erano convertibili in nulla, e non rappresentavano alcun collaterale: conchiglie rare, spezie, perline, sale (da cui termini come “salario), medagliette votive (da cui termini come “moneta”), capi di bestiame (da cui termini come “pecuniario”), oro e argento (qualcuno, in questi casi, si mette a blaterare di “valore intrinseco” come una componente che differenzi un gettone argentato da un output Bitcoin, dimenticando che proprio le commodity il cui valore di consumo diretto era più basso hanno sempre prevalso su quelle per cui esso dominava rispetto al valore monetario, in quanto i due usi sono in genere mutualmente distruttivi). 

Dall’altro lato perché, nella storia degli ultimi decenni, dopo la fine definitiva del Gold Standard decretata da Nixon, le principali valute nazionali a corso forzoso, inclusi Euro e Dollaro, non sono convertibili in nulla, e non rappresentano nessun collaterale pur mantenendo, in condizioni politiche normali e sul breve termine, una buona stabilità del loro potere d’acquisto grazie alla domanda generata dalle leggi sul legal tender e sul divieto di concorrenza monetaria, a fronte di un’offerta politicamente controllata dalle decisioni dei banchieri centrali. 

Di nuovo: la critica che l’autore muove al bitcoin potrebbe sostanzialmente valere, se non per Libra o per altri titoli rappresentativi convertibili, per ogni altra forma di denaro della storia, incluso il collaterale alla base dei suddetti titoli rappresentativi.

La terza metodologia, la più faticosa e dispendiosa, si basa sulla possibilità per il lettore di diventare egli stesso un po’ più “esperto”, andando a verificare le affermazioni con le principali fonti disponibili sul tema trattato. Anche questo test verrebbe clamorosamente fallito dall’articolo in esame, che chiunque conosca la materia può confermare essere pieno di “red flag” sul piano dei fatti verificabili.

Alcune sono più banali, ma comunque indicatrici di ben poca familiarità con l’ambito, come il fatto di confondere il nome della piattaforma Ethereum con il nome del token Ether (distinzione oggettivamente intelligente a livello di marketing, operata dal clone di Bitcoin in questione, che in effetti purtroppo non esiste nel caso di Bitcoin e di Libra, dove nome dell’asset e nome della piattaforma si intrecciano in modo spesso ambiguo).

Altre molto più sostanziali, come l’errore da principiante di adottare metriche da tempo falsificate che collegano in modo ingenuo gli indirizzi Bitcoin con singole persone: in realtà gli indirizzi più ricchi sulla blockchain rappresentano principalmente i mercati, chiamati exchange, su cui centinaia di migliaia di utenti singoli detengono e scambiano bitcoin contro altri asset. 

Di fatto questa enorme differenza tra numero di indirizzi ricchi e numero di possessori effettivi deriva da un utilizzo ancora tecnicamente immaturo del sistema, che invece richiederebbe, per motivi di sicurezza, di non riutilizzare mai più  di una volta ciascun indirizzo e di non lasciare i fondi depositati su terze parti fiduciarie oltre il tempo strettamente necessario per l’eventuale scambio: qualora tali best practices venissero effettivamente seguite, il numero di indirizzi supererebbe di gran lunga quello degli utenti, all’opposto di quanto avviene oggi, ma in ogni caso le due distribuzioni rimarrebbero assolutamente non correlate.

Anche alcune affermazioni sulle dinamiche di prezzo tradiscono, se non proprio malafede, perlomeno una profonda mancanza di conoscenza del settore: per esempio, quando si presenta come dato fattuale un supposto (e decisamente fantomatico) nesso causale tra la presentazione del whitepaper di Libra e l’attuale ciclo rialzista di Bitcoin (l’ennesimo, con caratteristiche del tutto simili ai precedenti in quanto a dinamiche, ma trasportato su ordini di grandezza sempre crescenti), o quando si afferma che “il crollo subito dal bitcoin nel 2018 sembrava aver decretato la vittoria della tesi della bolla”, quando in realtà rientrava evidentemente anch’esso nella dinamica continua di periodiche impennate e correzioni che caratterizza il processo di price-discovery di questo asset digitale, che a fine 2018 poteva vantare incrementi di capitalizzazione, anche solo considerando i due anni precedenti, inimmaginabili per la gran parte delle asset class tradizionali, e che aveva a quel punto ormai irreparabilmente compromesso la credibilità dei moltissimi prematuri “coccodrilli”.

In definitiva, la reputazione di molti giornalisti della carta stampata italiana, oggi come oggi, può crescere o conservarsi solo grazie al continuo afflusso di lettori che prendono sul serio i loro articoli, i quali sono a loro volta confusi dal succitato “effetto di Amnesia Gell-Mann” e considerano credibile gli autori solo in vista del fatto che sono presenti su testate tradizionalmente considerate autorevoli. Si tratta di una bolla molto difficile da mantenere, e che potrebbe scoppiare rovinosamente. 

Una sorta di schema Ponzi intellettuale, insomma. Il sottoscritto non fornisce consulenze finanziarie, ma se tale reputazione fosse un asset disponibile sui mercati d’investimento, ne starebbe decisamente alla larga.

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