Reuters ha spiegato in un recente articolo che le autorità hanno deciso di optare per il ban del mining di BTC dalla Cina.
La Commissione Nazionale per lo Sviluppo e il Rinnovamento (NDRC) sta lavorando infatti all’aggiornamento di una lista di attività produttive da promuovere, limitare o eliminare. Questa lista viene settimanalmente predisposta fin dal 2011.
Nell’ultima edizione della lista, che comprende 450 attività che devono essere progressivamente eliminate perché ritenute insicure, inquinanti o inutili, è stato aggiunto anche il mining di bitcoin. Non esiste una data limite per l’eliminazione ed i proprietari delle attività sopra indicate possono comunque appellarsi, entro il prossimo 7 maggio, contro la decisione ministeriale.
Il giornale Security Times martedì si è espresso citando le parole del General Manager della Kenetic Blockchain investments, Jehan Chu, a favore dell’operato della commissione NDRC, definendo la procedura e la lista, una manovra perfettamente in sintonia con le politiche commerciali in materia di criptovalute e di bitcoin mining del governo cinese, che vuole mantenere il settore assolutamente sotto controllo.
“Penso che semplicemente voglia semplicemente far ripartire il settore criptovalute e trasformarlo in uno che sia controllato, secondo un approccio simile a quello applicato ad Internet”.
In Cina l’attività di mining è stata spesso considerata uno spreco di energia elettrica e di risorse preziose. Questa repressione viene a giungere all’indomani dell’aumento del prezzo di bitcoin e del corso di altre valute virtuali che avrebbero potuto portare ad un sensibile aumento dei valori e quindi ad un ritorno della redditività delle attività di mining di BTC.
Le autorità vogliono evidentemente evitare che ci sia il ritorno ad un’attività di elaborazione incontrollata come nel 2017 con investimenti che, al termine, si rivelano bolle infruttifere.
Alex de Vries della PwC di Amsterdam valuta che il 50% del network di mining sia ancora collocato in Cina, nonostante le crescenti e pressanti attenzioni delle autorità locali. Questa pressione poi si sarebbe trasferita ad Hong Kong dove le tre aziende che producono mining hardware ed avevano chiesto la quotazione sono attualmente ancora ai blocchi di partenza.
La repressione cinese potrebbe portare ad accentuare la migrazione del mining da Pechino ai paesi con costi dell’energia contenuti.