HomeCriptovaluteCoronacoin: speculazione sulle vittime o lotta digitale al Coronavirus?

Coronacoin: speculazione sulle vittime o lotta digitale al Coronavirus?

Nel marzo 2020, mentre sembrava inarrestabile l’avanzata del Coronavirus, nasceva il Coronacoin. Mentre l’Italia era ancora nella morsa delle proprie misure sanitarie più restrittive, la conta dei danni e delle conseguenze del Covid19 sul mondo intero iniziava a diventare un mantra quotidiano: sanità, lavoro, trasporti, cultura e, non ultima, l’economia globale ne sono stati vittime tanto quanto la popolazione mondiale. 

Se esiste tuttavia un settore della finanza che, più di qualunque altro, è in grado di adattarsi alle rapide evoluzioni mondiali e di trasformare ostacoli in opportunità – anche forse a discapito dell’etica – è certamente quello delle criptovalute. 

Non c’è da sorprendersi allora che, proprio all’interno di questo mondo, a qualcuno sia venuto in mente di legare a doppio filo la diffusione del virus con un gettone virtuale, l’ERC20, basato sulla blockchain di Ethereum, e battezzarlo quindi Coronacoin (o $nCOV). 

Come funziona Coronacoin? 

Il Coronacoin è una criptovaluta di tipo deflattivo, spiegarono gli sviluppatori. 

Significa che il numero dei Coronacoin esistenti al mondo viene progressivamente ridotto distruggendo (“bruciando”) gettoni in circolazione, così da incrementare il valore di quelli rimasti. 

I $nCOV totali erano in principio 7.604.953.650, una cifra corrispondente all’intera popolazione mondiale al momento della nascita della valuta. 

Non ne sarebbero stati prodotti mai più altri. 

È qui, infatti, che il meccanismo si fa macabro: non solo i gettoni in circolo potevano soltanto diminuire, ma la distruzione progressiva della moneta circolante avveniva, ogni 48 ore, sulla base del numero di persone che, nel mondo, venivano contagiate o morivano per Coronavirus.

“Gli interessati scommettono sul fatto che una grossa porzione dei coins verrà bruciata a causa della diffusione del virus”.

Così commentava in quei giorni Sunny Kemp, indicato da Reuters come uno degli sviluppatori della criptovaluta virale «e quindi investono». 

Il meccanismo, decentralizzato grazie alla blockchain, si basava sulla “Proof of Death” (Prova della Morte), ossia sui report relativi alla diffusione del virus diffusi dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Chi ha inventato il Coronacoin? 

Il team dietro lo sviluppo di Coronacoin, stando a Reuters, conta sette sviluppatori, principalmente europei. Tra questi l’ideatore, Alan Johnson e il citato Sunny Kemp. 

Agli attacchi di chi li accusa di star speculando sulla morte delle persone, gli sviluppatori rispondono di essere stati fraintesi. 

La valuta, a detta loro, avrebbe il duplice scopo di garantire una trasparente 

informazione sul numero di vittime e raccogliere fondi a supporto delle operazioni di soccorso: sarebbero stati infatti destinati alla Croce Rossa Internazionale il 20% dei profitti totali relativi alle vendite della moneta. 

Per quanto concerne il primo obiettivo, quello informativo, si sarebbe sfruttata invece l’impossibilità, anche nei Paesi in cui l’informazione è sottoposta a controllo di Stato, di censurare le variazioni di valore della criptovaluta: così, di conseguenza, si sarebbero diffusi i dati dell’OMS su cui si basavano tali variazioni. 

La censura sarebbe stata irrealizzabile a causa della trasparenza decentralizzata del sistema blockchain, che svincolava il processo da un server centrale. 

Reazioni al Coronacoin 

Con piogge di critiche dalla stampa globale e perplessità anche di una parte della stessa comunità crypto non si può certo dire che $nCOV sia passato inosservato. 

Rispondeva Kemp al tornado di contestazioni:

“Esistono già Pandemic Bonds (ndr. prodotti finanziari legati alle pandemie) emessi direttamente dall’OMS. In che modo questo sarebbe diverso? È immorale? Cercateli su Google”.

Anche Forbes, dal canto suo, dedicò al fenomeno un articolo fortemente critico. 

Quest’ultimo riportava che il Coronacoin sarebbe stato scambiato principalmente su un circuito chiamato SaturnNetwork, di cui di cui avrebbe costituito circa il 60% del valore. Per di più, un’indagine di Decrypt avrebbe trovato Saturn Network carente dal punto di vista dei common standard di scambio online, e ne avrebbe sconsigliato l’utilizzo. 

Concludeva lapidario Billy Bambrough, nel suo articolo. 

“Il Coronacoin è un macabro espediente per far arricchire rapidamente i suoi ideatori, non un deposito di valore a lungo termine”.

Conclusione 

Quali che siano i reali intenti – ed allineamenti etici – delle menti dietro il $nCOV, ciò che sentiamo di trarne è solo l’ennesima conferma dell’infinita versatilità della Blockchain (e delle criptovalute che se ne servono), nonché del ruolo sempre maggiore che giocherà nel futuro imminente. 

Esprimere giudizi di valore su uno strumento di per sé virtuoso, colpevole solo di saper rendere praticabile qualsiasi prodotto (deprecabile o meno) della mente umana, sarebbe un’idea poco saggia. E di idee poco sagge sul tema potrebbero esserne nate già troppe. 

Giuliano Carlo De Santis

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