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TrumpOut2020, la guerra social al presidente USA

La barbara morte di George Floyd agita gli Stati Uniti e i social network. Su Twitter impazza l’hashtag TrumpOut2020, che è anche riferimento all’imminente campagna elettorale che potrebbe confermare o impedire un secondo mandato per The Donald. 

Le proteste scuotono gli Stati Uniti, dopo che un giovane afroamericano è stato barbaramente ucciso da un poliziotto. Viene riaperta la ferita storica delle discriminazioni razziste nel paese di Martin Luther King e Rosa Parks.

Ma Donald Trump non arretra di un centimetro e in due tweet più recenti ha ribadito di essere il presidente degli Stato Uniti che ha fatto di più per la popolazione nera, dopo Abraham Lincoln. Frasi che hanno suscitato ancora maggiore indignazione, soprattutto dopo che nei giorni scorsi lo stesso presidente si era detto pronto a schierare l’esercito contro le persone che manifestavano. E far sparare l’esercito contro dei connazionali equivale a scatenare una guerra civile.

“Trump Out 2020”: la battaglia è anche social

In questo scenario ci si sono messi anche i social network. Twitter ha segnalato un post di Trump come incitatore alla violenza. 

Dalle parti di Facebook invece, il CEO Mark Zuckerberg si è definito disgustato dalle parole del presidente USA scegliendo tuttavia di non intervenire. Stando alle indiscrezioni, Zuck avrebbe scatenato la rivolta dei suoi stessi dipendenti che avrebbero preferito una presa di posizione più marcata. 

Trump da parte sua ha risposto con un ordine esecutivo che limita la censura dei social.

L’insindacabile verità dei social network

Quel che emerge è la discrezionalità dei social network sui post pubblicati dai loro utenti. Che l’utente sia un illustre sconosciuto o il Presidente degli Stati Uniti d’America, Facebook e Twitter come enti centralizzati possono intervenire su ogni singolo post.

Vittima di questa discrezionalità sono soprattutto gli account dei politici che si vedono censurare dei contenuti se “incitanti all’odio”. 

Nei casi più gravi Facebook arriva ad oscurare le pagine che non sono in linea con i suoi valori, ma spesso, come detto, ciò avviene in modo del tutto arbitrario e che non ammette repliche. 

In Italia sta facendo scuola il caso di CasaPound, partito di estrema destra che si è visto cancellare in un colpo solo tutte le pagine Facebook ad esso associate. Una censura che ha colpito anche i singoli esponenti, a partire dal leader nazionale, a cui sono stati cancellati i propri profili personali, oltre alle pagine. 

Com’è finita? Che Casapound ha portato Facebook in tribunale e i giudici hanno stabilito che la decisione di Facebook nei confronti di Casapound è stata illegittima: in pratica quelle pagine non dovevano essere chiuse, del resto il partito è ben radicato in Italia tanto da avere rappresentanti (pochi, per la verità) anche nelle istituzioni. 

È evidente che Facebook e Twitter si comportino di fatto come degli editori, decidono loro cosa deve stare online e cosa no. È il grosso errore che fanno molti utenti, dai privati ai personaggi pubblici fino alle grandi associazioni: credere che lo spazio offerto dal social network sia casa propria. E invece non è così, in primis perché c’è un algoritmo che influenza la diffusione di ogni singolo post (e, per inciso, per avere massima diffusione la soluzione è una: pagare, perché i social non sono no-profit). Ma soprattutto il sistema ha il potere di oscurare i contenuti che ritiene “borderline”. 

Tutto questo avviene in nome della centralizzazione: c’è qualcuno che controlla i social. E i social altro non sono che piattaforme private.

Un sogno chiamato decentralizzazione

I social network decentralizzati possono essere una soluzione? Il dibattito si è aperto quando proprio Jack Dorsey, CEO di Twitter ha annunciato la creazione del team BlueSky, per realizzare un social network decentralizzato. 

Ma la filosofia non è tanto quella di controllare i contenuti quanto piuttosto non appropriarsi dei dati degli utenti. Che è quello che fanno Facebook e Twitter ed è ciò che li rende i colossi che sono. 

Poi ovviamente, si dice sempre che la governance, nel pieno modello della blockchain, spetta agli utenti, che diventano “validatori” dei contenuti. Ma ci saranno sempre utenti più potenti di altri, e chissà che non possa diventare discutibile il modo in cui quegli utenti sono chiamati a stabilire cosa è bene e cosa è male. 

E ci saranno anche utenti pronti a diventare padroni, un po’ come è successo a Steemit, comprato dal CEO di Tron, Justin Sun

Quel che è certo, fuori dai social e dai tweet del presidente Trump, è che in realtà gli Stati Uniti sono attualmente una polveriera. La crisi da Coronavirus ha fatto impennare il tasso di disoccupazione. È bastata una scintilla a far scattare la rivolta popolare. E non c’è social o censura che possa frenarla.

Eleonora Spagnolo
Eleonora Spagnolo
Giornalista con la passione per il web e il mondo digitale. È laureata con lode in Editoria multimediale all’Università La Sapienza di Roma e ha frequentato un master in Web e Social Media Marketing.
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