Fino a ieri, non esistendo alcuna normativa fiscale specifica ed espressa, tanto il fatto che si dovesse pagare l’imposta sui redditi sulle plusvalenze derivanti da operazioni con le criptovalute nello stesso modo in cui l’imposta è dovuta sulle plusvalenze da operazioni con valute estere, quanto il fatto che esistesse un obbligo di dichiararne la detenzione tra le attività finanziarie estere ai fini del monitoraggio fiscale (ossia, nel famigerato quadro RW), erano essenzialmente tesi sostenute per via interpretativa dall’Agenzia delle Entrate.
Tesi discutibili e avversate da studiosi e giuristi autorevoli sotto una molteplicità di punti di vista, ma che di fatto hanno prevalso anche in alcune interpretazioni della giurisprudenza.
La mancanza di normativa esplicita e l’indiscutibile sussistenza di quelle che il diritto definisce ragioni di obiettiva incertezza, potevano venire incontro al contribuente che avesse violato i principi così ricostruiti dal fisco.
Summary
Crypto ed evasione fiscale in Italia: l’incertezza normativa
Sulla base dell’art. 10, co. 3 L. n. 212/2000 (Statuto del contribuente) che stabilisce che non si debbano applicare sanzioni in caso di incertezza della normativa, dell’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992 (il codice di rito del processo tributario), in forza del quale il Giudice tributario può disapplicare le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie, nei casi in cui la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza delle disposizioni fiscali e infine dall’art. 6 co, 2 del D.Lgs. n. 472/1997, che pure stabilisce lo stesso principio di non soggezione alle sanzioni quando la violazione viene determinata da obiettive condizioni di incertezza della norma tributaria.
Si tratta di un principio che mira a tutelare l’affidamento del contribuente, in modo che non siano poste a suo carico le conseguenze di contraddizioni e lacune normative di cui, evidentemente, non può essere considerato responsabile.
Dopo l’entrata in vigore della legge finanziaria 2023, tuttavia, questo tipo di scusante, in linea generale, non si può più invocare.
La legge, infatti, ha introdotto in modo chiaro ed univoco, tanto uno specifico obbligo fiscale, con una imposta sostitutiva dedicata alle plusvalenze sulle operazioni in criptovalute, quanto l’obbligo di dichiararne la detenzione ai fini del monitoraggio fiscale.
Ora, è vero che sussistono ancora alcuni profili di incertezza che possono ricorrere su alcune casistiche di dettaglio (ad esempio, nel caso di operazioni con NFT, per i quali non è ben chiaro se rientrino o meno nel perimetro di applicazione delle norme fiscali ed eventualmente a quali condizioni).
Tuttavia, è ormai fuor di dubbio che laddove si maturino plusvalenze di importo superiore ai 2.000 euro su operazioni di trading in criptovalute le stesse vadano dichiarate e vada pagata la relativa imposta; è altrettanto chiaro che la detenzione di cripto-attività vada dichiarata nel quadro RW; infine è chiaro che sulle cripto-attività sia dovuta anche l’inedita imposta di bollo, introdotta anch’essa ex novo con la finanziaria.
Le conseguenze dell’omissione delle plusvalenze maturate
Allo stato della vigente normativa, quindi, cosa succede se si omette di dichiarare le plusvalenze maturate?
Vediamolo.
Innanzitutto, occorre tenere presente che se si detengono criptovalute nell’account di un exchange o sul wallet di un provider abilitato ad operare in Italia, tali operatori (necessariamente iscritti nell’apposito registro tenuto presso l’OAM) sono tenuti a trasmettere trimestralmente i dati identificativi dei relativi utenti che sono così accessibili alle agenzie fiscali.
In questo caso, dunque, se si opera attraverso la maggior parte degli exchange più conosciuti, soprattutto quando gli importi delle operazioni sono rilevanti, le possibilità di incappare in un controllo o una verifica, sono piuttosto elevate.
Dunque, se si omette di dichiarare le plusvalenze tra i vari redditi maturati nel corso dell’anno di imposta, si potrebbe subire un controllo che può essere operato, tanto dall’Agenzia delle Entrate, quanto dalla Guardia di Finanza.
In questo caso si verrà invitati a esibire tutta la documentazione disponibile e a fornire eventuali giustificazioni.
Le modalità con cui possono essere eseguiti un controllo o una verifica sono diversi: si può ricevere un invito a fornire documenti ed informazioni, attraverso un apposito questionario, cui può seguire una c.d. verifica a tavolino (cioè, senza la necessità di un accesso presso il domicilio o la sede del contribuente).
In alcuni casi, tuttavia, la verifica potrebbe essere eseguita mediante un accesso della Guardia di Finanza o del personale dell’Agenzia delle Entrate, volta alla ricerca di documentazione contabile ed extracontabile.
Nella fase della verifica il contribuente ha la possibilità di farsi assistere da un professionista (avvocato o commercialista) di fiducia e fare verbalizzare le giustificazioni o le dichiarazioni del caso.
Se in esito alla verifica si dovesse pervenire alla conclusione che alcuni dei redditi percepiti non sono stati dichiarati, verranno formulate delle contestazioni e potrebbe essere emesso un processo verbale di constatazione (PVC) o un invito all’adesione (un atto in cui si invita il contribuente ad accettare i risultati della verifica fiscale e a prestarvi adesione).
Se viene emesso un invito all’adesione e il contribuente non aderisce, seguirà l’emissione di un avviso di accertamento esecutivo.
Se alla verifica segue l’emissione di un PVC il contribuente ha 60 giorni di tempo per presentare le sue osservazioni e le eventuali giustificazioni rispetto ai rilievi formulati nel verbale.
In questo caso, se l’ufficio non ritiene convincenti le giustificazioni, potrà emettere l’avviso di accertamento esecutivo, ma non prima del decorso dei 60 giorni concessi al contribuente per formulare le sue osservazioni e giustificazioni.
L’avviso di accertamento si dice esecutivo perché esso è immediatamente efficace alla stregua di un vero e proprio titolo esecutivo.
In questo atto sono indicate le somme che il fisco ritiene dovute per il mancato pagamento delle maggiori imposte accertate, le sanzioni pecuniarie e gli interessi.
Ovviamente l’atto deve essere congruamente motivato, anche se spesso la motivazione consiste in un pedissequo rinvio agli atti della verifica (c.d. motivazione per relationem).
Se gli importi accertati sono di modesta entità, le conseguenze sono solo di carattere pecuniario, nei casi più gravi, tuttavia, può scattare anche la commissione di un reato.
La pena direttamente proporzionale all’importo non dichiarato
Infatti, se la mancata dichiarazione degli introiti comporta un’evasione superiore ai €100.000 di una singola imposta (ad esempio, l’imposta sui redditi) e se, al tempo stesso l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, supera il 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque supera la soglia totale di due milioni, ricorre la fattispecie di reato per dichiarazione infedele.
Il reato è punito ai sensi dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000, con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi.
Avverso gli avvisi di accertamento è possibile ricorrere alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio.
Al di là di eventuali aspetti penali (che però ricorrono solo nei casi in cui, come si è visto, l’evasione raggiunge importi molto elevati) occorre tenere presente che laddove si subisca l’emissione di un avviso di accertamento esecutivo, è possibile ricorrere non solo per contestare nel merito la fondatezza della pretesa tributaria, ma anche il rispetto di una quantità di aspetti procedurali (ad esempio, sulle modalità di svolgimento della verifica, e sui termini di emissione dell’atto di accertamento) e di profili formali estremamente rilevanti.
Gli atti di accertamento, infatti, poiché sono estremamente invasivi devono rispettare una serie di caratteristiche contenutistiche e formali, la cui mancanza può determinare l’invalidità dell’atto impositivo.
L’ordinamento prevede una serie di importanti presidi di garanzia a tutela del contribuente: dall’obbligo di contraddittorio preventivo, all’obbligo di motivazione, all’obbligo di dimostrare i presupposti costitutivi dell’obbligazione tributaria, senza contare una serie di termini perentori e tassativi a cui sono ancorate le fasi del procedimento impositivo, e la cui violazione può condurre all’annullamento dell’atto.
Laddove si subisca un controllo, una verifica o si riceva un atto di accertamento, quindi, è sempre necessario farsi assistere non solo da un professionista in grado di operare una ricostruzione analitica sui valori e sugli importi che vengono messi in discussione, ma anche da un esperto di contenzioso tributario che sappia valutare eventuali profili di illegittimità formale dell’atto di accertamento e della procedura che ha condotto alla sua emissione.
La scelta di un professionista effettivamente competente in questo tipo di profili è di cruciale importanza: la società di consulenza aziendale e fiscale AllCore S.p.A. ha creato un’apposita divisione denominata Crypt&Co., in cui opera un pool di professionisti in ambito fiscale, legale e contabile, che include esperti di contenzioso tributario (avvocati e commercialisti).
Questa squadra di professionisti assiste la clientela non solo per la parte che riguarda la ricostruzione delle movimentazioni delle crypto e dei redditi effettivamente maturati (operazione che può risultare di per sé particolarmente complessa soprattutto nel caso in cui le movimentazioni sono numerose e su più piattaforme), ma anche per la parte che attiene la valutazione dei profili di possibile illegittimità formale e procedurale.
In caso di controlli, quindi, calma e gesso, e tenete sempre un buon difensore tributario a portata di mano.