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Una delle poche certezze che abbiamo avuto fino ad oggi è che estrarre criptovalute richiede una notevole quantità di energia. Al punto che da molte parti si levano voci di una prossima catastrofe ambientale.
Una recente ricerca indipendente, però, costringe a cambiare molti punti di vista facendo notare, ad esempio, che altri settori sono ben più energivori.
A dirlo è la Dr. Katrina M. Kelly-Pitou, ricercatrice presso il Dipartimento di ingegneria elettrica e informatica dell’Università di Pittsburgh e responsabile della strategia e dello sviluppo commerciale al Center for Energy. In un suo articolo intitolato Stop worrying about how much energy bitcoin uses, apparso sulla rivista The Conversation, mette in discussione la tesi “ufficiale” di un universo crypto particolarmente affamato di energia.
Da tempo, come parametro, vengono spesso citati quei 30 terawattora che sono risultati necessari, nel 2017 per la creazione di moneta virtuale, un livello senza dubbio alto, ma non esorbitante.
Almeno stando ai calcoli della ricercatrice che precisa: il settore bancario consuma circa 100 terawatt di energia all’anno, quindi molto di più.
Inoltre, la cifra di 30 terawattora non è in quanto tale indicativa.
Infatti, per una valutazione complessiva dell’impatto ambientale bisogna valutare anche altri fattori come, ad esempio, l’iter di produzione dell’energia stessa, oltre che l’ottimizzazione del suo impiego.
Come fa notare il report, infatti, la Cina crea energia sfruttando ancora il carbone (circa il 60% deriva da combustibili fossili), cosa che invece non fanno altre nazioni come l’Islanda, più legata alle fonti rinnovabili a basso costo (si sfiora il 100%), o il Giappone: Tokyo, infatti, per l’estrazione cryptomonete usa l’eccesso di energia prodotta dai pannelli solari.
Quindi, più che scandalizzarsi per l’impiego di un considerevole quantitativo di energia nella produzione di criptovalute sarebbe giusto domandarsi che tipo di energia sarebbe giusto usare e, di conseguenza, renderla disponibile.
Lo sviluppo dei settori
Qualcuno potrebbe obiettare che il paragone con il mondo bancario rischia di essere azzardato se si pensa che il bitcoin non avrà che una decina d’anni di vita e che quindi è destinato a crescere anche a livello mondiale conseguente aumento del fabbisogno.
Innegabile che questa sia la realtà, ma è la stessa Kelly-Pitou a rispondere: il processo di maturazione produrrà anche un aumento dell’efficienza dei sistemi e delle tecniche di estrazione, come insegna anche la storia passata.
La stessa cosa è avvenuta in quasi tutti i settori dell’economia, basti pensare a quello automobilistico e a quanto nei decenni ha ridotto i consumi di carburante. Oppure ai primi computer che richiedevano un’enorme dispendio di energia.
Volendo ampliare gli esempi, si potrebbe citare lo stesso settore energy: il boom dello shale oil U.S.A. ha dato vita a impianti più efficienti, così come la diffusione dei pannelli solari ha permesso ai centri di ricerca di creare soluzioni che ottimizzano la resa in minor spazio e in tempi ridotti.
La conseguenza è ovvia. Tutte le nuove tecnologie ad alta intensità energetica come i data center e i computer sono diventati col tempo, più efficienti seguendo una semplice logica: il risparmio energetico equivale a risparmiare sui costi.