Secondo il Cambridge Center for Alternative Finance, l’hashrate della Cina allocato sul mining di Bitcoin si sarebbe pressoché azzerato.
Summary
L’hashrate non è più condizionato dalla Cina
La mappa è chiarissima. Ad inizio anno risultava essere allocato in Cina il 53% dell’intero hashrate di Bitcoin a livello globale, sceso al 49% a marzo.
A partire da maggio si è verificato un vero e proprio crollo: 44%, sceso al 34% a giugno, ed allo 0% a luglio.
La Cina ormai non è più un fattore per quanto riguarda il mining di Bitcoin.
Al contrario, gli USA ad inizio anno erano solamente al 10%, ma a marzo erano già saliti al 16%. Ancora a maggio erano solamente al 17%, ma a partire da giugno c’è stato il boom: prima 22%, poi 35% a luglio.
La distribuzione dell’hashrate di Bitcoin
La percentuale di potenza di calcolo a livello globale installata negli USA è più che raddoppiata tra maggio e luglio, ed attualmente con il loro 35,4% sono il singolo paese al mondo con più hashrate in assoluto allocato sul mining di Bitcoin.
La cosa curiosa è che al secondo posto c’è il Kazakistan con il 18%, non a caso un paese con grandi disponibilità di energia a basso costo e vicino alla Cina.
Molti miner cinesi si sono trasferiti all’estero, e gli Stati dell’Asia Centrale sono stati in assoluto tra le mete preferite dai miner in fuga dalla Cina, sia per i costi ridotti dell’energia, sia anche per la relativa vicinanza.
Anche Russia e Canada sono ormai nella fascia alta di questa classifica, rispettivamente con 11% e 9,5%.
Gli unici altri paesi al mondo con più dell’1% dell’hashrate risultano essere Irlanda (4,7%), Malaysia (4,6%), Germania (4,5%) e Iran (3%).
L’incremento più evidente è quello degli USA, dato che solamente un anno fa erano poco sopra il 4%, e questo fa pensare che il grosso dell’hashrate venuto a mancare quest’anno in Cina sia stato sostituito da hashrate installato negli USA.
Non è chiaro se si sia trattato di miner cinesi che hanno trasferito la loro attività negli Stati Uniti, o di una nuova opportunità di mercato che gli imprenditori statunitensi hanno saputo sfruttare meglio di altri.
Nel secondo caso si sarebbe trattato di una vera e propria sostituzione degli USA nei confronti della Cina come paese leader nel mining di Bitcoin, ovvero nella convalida delle transazioni on-chain. Potrebbe a tutti gli effetti trattarsi di un evento epocale per Bitcoin.
Risalendo indietro fino a settembre 2019, la percentuale di hashrate allocata in Cina risultava essere addirittura del 75%. Fino ad un paio di anni fa i miner cinesi dominavano completamente questo mercato, senza rivali. Le decisioni dello Stato, contrario al mining di Bitcoin a causa dei consumi energetici, ha escluso la Cina da questo mercato.
I problemi della Cina
La Cina quest’anno sta soffrendo di gravi problemi di approvvigionamento energetico, e non è detto che in futuro, qualora dovessero riuscire a risolvere tali problemi, non dovesse prendere la decisione di rientrare.
La sensazione però è che il dado ormai sia tratto: il Paese asiatico forse ha perso definitivamente il suo primato assoluto nel mining di Bitcoin.