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Il vuoto della normativa fiscale sul mining

Le attività di mining sono poco considerate in Italia e rappresentano ancora un settore di nicchia. Infatti, la normativa fiscale non è ancora in grado di disegnare un quadro generale chiaro. 

In Italia a quali obblighi fiscali è soggetto chi fa mining? 

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Il sistema fiscale italiano sulle attività di mining e scambio di criptovalute

È una domanda ricorrente, perché, nel nostro Paese a fronte di una cronica mancanza di norme fiscali che affliggono in generale il settore crypto, proprio il mining è una di quelle attività meno considerate e fino ad oggi neppure mai affrontate nei documenti di prassi del fisco nostrano.

Comunemente si crede che, a causa degli elevati costi dell’energia, il mining in Italia sia poco conveniente e quindi poco diffuso. In realtà le cose non stanno proprio così.

Secondo il dott. Mazza, Amministratore di FCM /AsicMining.it, società specializzata nella vendita e manutenzione di apparecchi per il mining, quest’attività in Italia, pur costituendo un settore di nicchia, è in forte crescita e con importanti opportunità all’orizzonte. Il dato viene percepito in modo netto sulla base dei fatturati in forte crescita. Mazza afferma che:

“Molti miners compensano l’elevato costo energetico orientandosi su algoritmi ad alta efficienza energetica, come Daggerhashimoto (ETH), Scrypt (LTC/DOGE) o Equihash (ZEC). Tuttavia, anche il mining di Bitcoin è molto attivo in Italia. Sono molti i casi in cui il mining risulta adeguatamente remunerativo, nonostante il costo dell’energia elettrica. Ad esempio, questo vale per i produttori di energie rinnovabili: spesso, il corrispettivo per chi immette energia in rete è nettamente inferiore al controvalore che si può ricavare usando la stessa quantità di energia per minare criptovalute. Ci sono poi casi come quello delle industrie che producono energia elettrica come effetto collaterale delle loro produzioni (impianti di estrazione, raffinerie ecc.), o delle aziende energivore che beneficiano di prezzi più bassi. Poi c’è anche chi, avendo necessità di riscaldare locali freddi, usa il calore sprigionato dagli Asic. La nostra azienda, in partnership con Provides Metalmeccanica di Latina, sta poi sviluppando un prodotto molto innovativo che, grazie all’impiego di tecnologie brevettate, può scaldare acqua calda sanitaria grazie al mining di Bitcoin. Le prestazioni del sistema appaiono estremamente interessanti ed entro poche settimane saremo pronti con il primo prototipo funzionante.”

Ora, se il mining non è un’attività poi così rara in Italia, tutto sommato vale la pena cercare di fare il punto della situazione, anche perché i nodi da sciogliere sono molti.

Innanzitutto, sul piano fiscale cambia molto se l’attività di mining viene svolta a titolo squisitamente personale o se, per le modalità con le quali viene svolta, essa può essere qualificata come attività di impresa.

Quadro fiscale per le imprese 

Se il mining viene svolto come attività di impresa allora la questione è relativamente semplice. I proventi derivanti dalla cessione delle valute minate costituiscono reddito di impresa sottoposta a imposta sul reddito nella misura che varia in base alle aliquote raggiunte nel corso del periodo di imposta, e al netto dei costi di produzione.

Questo vuol dire che dalla base imponibile (cioè dagli introiti lordi) si potranno dedurre i costi sostenuti per produrre le valute minate, purchè siano inerenti (quindi strettamente correlati all’esercizio dell’attività di impresa) e documentati in modo chiaro. 

Sul piano dell’Iva, alle vendite di valute virtuali, trattandosi di mezzi di pagamento, non va applicata, anche alla luce della sentenza della CGUE del 22/10/2015, in Causa C-264/14, nota come Sentenza Hedqvist.

Quadro fiscale per le persone fisiche

La questione si complica se il mining di criptovalute non assume il carattere di attività di impresa. In questo caso per gli introiti che vengono maturati per effetto della conversione in valuta legale delle criptovalute minate, l’inquadramento fiscale dovrebbe applicare le stesse regole e gli stessi principi che vanno applicati al caso di introiti conseguiti dalle persone fisiche (non imprese di trading o di exchange) per effetto delle operazioni di scambio, ossia di acquisto e successiva rivendita di criptovalute.

Questo innanzitutto significa che per questo genere di proventi si ripropongono sostanzialmente le stesse rilevanti problematiche, ancora irrisolte, che attengono alla questione dell’imponibilità delle plusvalenze maturate con il trading di criptovalute.

L’equiparazione con il reddito da valuta estera

Come noto, secondo l’interpretazione del fisco italiano, esplicitata in una serie di risposte ad interpelli (la prima delle quali è costituita dalla famigerata nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 2 settembre 2016, n. 72/E), le criptovalute, ai fini del trattamento fiscale, andrebbero equiparate alle valute estere. 

Secondo questa tesi, quindi, le plusvalenze conseguite dalla conversione delle criptovalute, genererebbero redditi imponibili come redditi diversi (art. 67 co. 1 lett. c-ter del TUIR), soggetti ad un’imposta sostitutiva pari al 26% della plusvalenza maturata. L’imposta scatta se il controvalore delle criptovalute detenute nell’insieme di tutti i wallet supera la soglia di giacenza di 51.645,69 euro per sette giorni lavorativi di seguito (art. 67 co. 1  ter del TUIR).

Attenzione: questa interpretazione, sebbene sia stata ribadita a più riprese dall’Agenzia delle Entrate, è vivacemente contestata da molti degli addetti ai lavori.

Il punto debole di questa costruzione, infatti, sta nell’equiparazione delle valute virtuali alle valute estere, perché questo assioma sembra contraddetto sia dalla Sentenza Hedqvist, di cui si è già detto, sia dall’art. 2 del DPR 148/1988 (Testo unico valutario) in cui viene data una definizione giuridica del concetto di valuta estera, in cui non è possibile in alcun modo far ricadere il concetto di valuta virtuale, e quindi di criptovaluta.

Ora, la criticità di questo assioma se vale per le plusvalenze che si maturano per effetto delle operazioni di acquisto e rivendita di criptovalute, vale anche nei medesimi termini anche per le plusvalenze che si possono maturare per effetto della cessione di criptovalute che un privato si ritrovi nel wallet, anche per effetto di un’attività di mining.

Detto questo, immaginiamo di accettare il ragionamento del fisco italiano. In questa prospettiva, se un privato accumula nel suo wallet delle criptovalute che sono il frutto dell’attività di mining e poi le converte in valuta legale, se il controvalore delle criptovalute supera la soglia di 51.645,69 euro per sette giorni, in applicazione di questo ragionamento, vien da pensare che debba pagare l’imposta sulla plusvalenza maturata. 

Uno dei problemi, quindi, è determinare l’entità della plusvalenza. È pacifico che se io compro una criptovaluta a 10 e la rivendo a 15, la mia plusvalenza sarà 5 (al di là del fatto che questa plusvalenza sia tassabile o no). 

Ma se le criptovalute convertite sono frutto di attività di mining viene spontaneo supporre che la plusvalenza corrisponda alla differenza tra il valore di acquisizione (che sarebbe pari a 0), e quello di conversione. Se tale valore è pari a 15, dunque, esso costituirà plusvalenza per intero.

C’è però un altro problema. L’attività di mining consiste nell’elaborazione di una serie di operazioni matematiche di carattere probabilistico. Questo vuol dire che non è affatto scontato, e anzi, è estremamente aleatorio che in un determinato arco di tempo, si riesca con certezza a minare un blocco della catena. 

La componente di alea e di casualità è tale che vi è chi sostiene che l’introito eventualmente maturato possa essere qualificato alla stregua del reddito da vincite di lotterie, concorsi a premio, giochi e scommesse, disciplinati dall’art. 67 co. 1 lett. d) del DPR 917/1986.

Se questa ipotesi fosse corretta cambierebbe completamente il regime di tassazione, perché il relativo introito sarebbe tassabile non più al 26% ma entrerebbe per l’intero importo nella base imponibile del contribuente.

La definizione dell’attività di mining

Altro problema. Come stabilire quando l’attività di mining costituisce esercizio di attività di impresa (tale da generare reddito di impresa, appunto) e quando invece svolgimento di un’attività che genera un reddito diverso, sia esso sotto forma di plusvalenza di natura finanziaria (art. 67 co. 1 lett. c – ter) o sotto forma di reddito da vincita di lotterie, giochi a premio, eccetera (art. 6. Co.1 lett. d)?

Il codice civile (art. 2082 c.c.) definisce imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata per la produzione o lo scambio di beni o di servizi. Gli elementi caratterizzanti, dunque, sono costituiti dalla professionalità nell’esercizio dell’attività. 

Cioè il fatto che quell’attività venga svolta in modo continuo e regolare, non episodico ed occasionale. Altro indicatore, poi, solitamente è costituito dall’esistenza di una qualche forma, anche minima, di organizzazione.

Nel caso specifico del mining, tuttavia, anche quando esso venga svolto ad un livello minimo e, diciamo così, “artigianale”, esso per definizione postula tanto che sia esercitato con continuità, quanto che venga basato su un minimo di organizzazione, costituita, quanto meno dall’elaboratore o dagli elaboratori impiegati per minare i blocchi. 

È intuitivo che se un privato che ordinariamente faccia altro nella vita, semplicemente abbia un Asic che acceso notte e giorno in cantina, ragionevolmente non stia esercitando un’attività d’impresa. In linea teorica, però, gli ingredienti per affermare che lo stia facendo ci sono tutti.

Questo implica che, in caso di controlli, quel privato rischi di vedersi addebitato l’esercizio di un’attività di impresa totalmente non dichiarata.

Insomma, mentre vengono sfornate a getto continuo norme antiriciclaggio sempre più complesse, che hanno nel mirino ogni genere di crypto attività, sul fronte fiscale si contrappone il vuoto pneumatico e le clamorose lacune e contraddizioni dell’ordinamento possono essere la fonte di disorientamento e di gravi disagi per i contribuenti, anche quando si parla di mining.

Riuscirà mai a vedere la luce in Italia una disciplina fiscale organica su criptovalute e crypto asset?

Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta, avvocato tributarista in Milano, managing partner e fondatore dello studio legale tributario QRM&P, ha all’attivo molte pubblicazioni sugli aspetti legali e tributari di legal tech, intelligenza artificiale e criptovalute. Relatore in numerosi convegni sulla materia, tiene la rubrica “Tax & the city” per il quotidiano La Verità e scrive regolarmente per la rubrica Economia e tasse della testata Panorama. È membro della Commissione Giustizia Tributaria presso l’Ordine degli Avvocati di Milano ed è il referente della sede milanese dell’associazione interdisciplinare per lo studio e le applicazioni dell’intelligenza artificiale GP4AI (Global Professionals for Artificial Intelligence).
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