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La torre d’avorio dei brevetti

Soltanto nel 2017 sono stati registrati a livello mondiale 406 brevetti inerenti la blockchain,  di cui la Cina ne detiene ben 225 (gli USA sono a quota 91), confermando la forte volontà della Repubblica Popolare di avere un ruolo dominante in questo ecosistema.

Ultimo caso eclatante è quello di Intel, che ha recentemente depositato al Patent and Trademark Office degli Stati Uniti un brevetto per un acceleratore hardware per il mining di bitcoin (BTC), che promette di “minimizzare i consumi energetici e massimizzare le prestazioni per watt” di circa il 35% rispetto a quelli attuali.

La proprietà intellettuale, conferendo al titolare del brevetto un diritto esclusivo di sfruttamento dell’invenzione, in un territorio e per un periodo ben determinato, non può che essere considerata una tossina perniciosa per l’industria Bitcoin.

L’idea stessa di brevetto è in contrapposizione con il movimento culturale da cui scaturisce, ovvero quello dei cypherpunk, assolutamente antitetica rispetto agli ideali anarchici e libertari della libera informazione che pervadono le fondamenta e l’operatività di questa industria.

Non ci dobbiamo dimenticare che il protocollo Bitcoin è stato rilasciato come Free Open Source (FOSS), cioè concesso in licenza gratuita per essere usato liberamente, modificato e distribuito, e sottoposto alla sola condizione che che tutte le modifiche, sia correzioni sia miglioramenti, siano rilasciate sotto la stessa licenza.

Ma il vero pericolo non deriva dal minare alle fondamenta il “credo” dell’industria ma dall’impatto che, la proprietà intellettuale, nell’accezione comune, avrebbe sugli attuali e futuri sviluppi della tecnologia.

Come già teorizzato da Henry W. Chesbrough, padre dell’Open Innovation, “ il modello tradizionale per l’innovazione, sta diventando obsoleto. Emergere al suo posto c’è un nuovo paradigma,  l’’open innovation”, che sfrutta strategicamente fonti di idee interne ed esterne e le porta al mercato attraverso molteplici percorsi.”

La ricerca e lo sviluppo deve uscire dai laboratori aziendali e fare leva su qualsiasi intelligenza esterna pronta a contribuire, e questo significa anche dare accesso alla propria proprietà intellettuale per un progresso geometrico e non lineare o piatto.

Se lo sviluppo bitcoin rimane confinato entro il perimetro delle torri d’avorio delle aziende che detengono i brevetti i progressi saranno sempre inferiori per qualità e quantità rispetto ad un ecosistema in cui ogni intelligenza può avere libero accesso al protocollo, proporre modifiche e avere un continua e numerosa peer review per una analisi e validazione del codice scritto.

Questo sistema ha funzionato brillantemente sullo stesso Bitcoin.

In questi anni si è visto produrre, in ogni progetto rilevante, codice di qualità assoluta ed una continua innovazione sia sul protocollo che sulle applicazioni costruite sopra di esso.

Essendo in questa industria così rilevante l’aspetto della sicurezza, è di fondamentale importanza che quante più persone possibili valutino le varie implementazioni, sia dal punto di vista dell’azienda che li produce, sia da quello dell’utente che deve sentirsi al sicuro di poterle utilizzare senza doversi fidare, quindi in modo trustless.  

Le aziende nate in questo ecosistema e i core developer Bitcoin più autorevoli e prolifici hanno abbracciato questo approccio e, fino ad ora, hanno protetto i loro sviluppi open-source con Defensive Patent License (DPL)1 . Sotto il profilo giuridico questo tipo di licenza non garantisce una protezione completa, ma si stanno studiando nuovi strumenti di protezione ad hoc come quello della Blockchain Defensive Patent License (BDPL)2 .

La BDPL dovrebbe infatti risolvere alcune lacune del DPL, promettendo di evitare la formazione di un cartello di miner detentori di particolari brevetti.

In ambito mining, eventuali brevetti non solo potrebbero rallentare lo sviluppo, ma possono decretare l’inizio di una fase in cui il mining decentralizzato è de-facto illegale.

Il processo di mining è un modo per garantire una conferma permissionless delle transazioni e, senza questo aspetto, bitcoin non avrebbe nessuna caratteristica desiderabile aggiuntiva alle monete centralizzate.

Questo processo implica un impiego massivo di energia elettrica.

Se un brevetto garantisse a un minatore una maggiore efficienza energetica e al contempo escludesse gli altri dall’utilizzo di tale tecnologia, si determinerebbe una condizione di disparità competitiva che finirebbe per espellere la maggior parte degli attori, dato che il meccanismo di consenso e il sistema degli incentivi sarebbe grandemente leso, creando degli oligopoli in cui attacchi del 51% o frodi sarebbero non solo probabili ma estremamente possibili.

Un brevetto però, non esclude i miner dall’utilizzare la tecnologia che intende proteggere; esclude unicamente i miner che la utilizzano alla luce del sole e legalmente.

Sono già accaduti casi in cui miner sono stati accusati di aver utilizzato tecnologie protette da brevetti, come l’uso da parte di alcuni minatori cinesi di AsicBoost, una tecnologia che permette un miglioramento fino al 20-30% delle prestazioni di mining, ma probabilmente utilizzata in modo covert, nascosto, per impedire che fosse evidente la violazione di un brevetto.
Complessivamente, si può affermare che Bitcoin è strutturato in modo da resistere anche alle pressioni più ostili, come lo scenario oligopolistico dei miner appena delineato.

In ogni caso sicuramente i brevetti rappresentano una realtà negativa, che rallenta e ostacola gravemente sia lo sviluppo di progetti, software e innovazione che dell’ecosistema stesso.

È fondamentale dunque che gli sviluppatori, le aziende operanti nel settore e le istituzioni lavorino per proteggere la bellezza e la dinamicità di questa realtà open-source, o all’interno della logica stessa dei brevetti – per esempio con i già menzionati BDPL – oppure sfidando radicalmente il concetto stesso di proprietà intellettuale, quindi con una mobilitazione politica e ideologica (si pensi al programma dei Pirate Parties nati in Svezia).

<< The history of patents includes a wealth of attempts to reward friends of the government and restrict or control dangerous technologies. >>  

James Boyle, one of the founders of the Creative Commons license

  1. https://defensivepatentlicense.org/DPL:la DPL ha lo scopo di proteggere la libertà di condividere e migliorare le invenzioni brevettate, tra una comunità di persone. Si condividono i brevetti che garantisce a ciascun membro una licenza a costo zero per tutti o parte dei brevetti all’interno della rete, lasciando comunque quei brevetti applicabili a chiunque abbia scelto di non aderire la comunità di condivisione dei brevetti di DPL.
    A differenza delle licenze basate sul copyright come la GNU General Public License, la DPL v1.1 richiede che una persona o un’organizzazione licenzi TUTTI i loro brevetti sotto la licenza DPL al fine di ricevere licenze gratuite da altri utenti DPL. Ciò è dovuto alle differenze tra brevetti e copyright e ai modi in cui i brevetti possono minacciare l’accesso alla conoscenza e alla libertà in modi che il diritto d’autore non può. Nel richiedere ciò, il DPL si pone come un impegno inequivocabile alla non aggressione tra una comunità di persone e aziende che ottengono brevetti per difendersi, ma che non vogliono usare aggressivamente questi brevetti contro il pubblico.
  2. https://blockchaindpl.org/. BDPL, che mantiene le proprietà difensive fondamentali del DPL, ha l’obiettivo non solo di declinare questo ultimo per blockchain ma anche di eliminare  le lacune/ punti deboli che hanno caratterizzato le defensive patent licence. Come ad esempio, la condizione per cui si impedisce ai membri, “sia individualmente che in collusione tra di loro o con qualsiasi altra persona”, di presentare una richiesta non difensiva; oppure che la revoca della licenza BDPL se i membri utilizzano un brevetto concesso in licenza da una terza parte, nel caso in cui sia o c’è il pericolo che sia applicata e limitata dall’uso da parte di un altro membro BDPL.
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Amelia Tomasicchio
Amelia Tomasicchiohttps://cryptonomist.ch
Esperta di digital marketing, Amelia inizia a lavorare nel settore fintech nel 2014 dopo aver scritto la sua tesi di laurea sulla tecnologia Bitcoin. Precedentemente è stata un'autrice di diversi magazine crypto all'estero e CMO di Eidoo. Oggi è co-founder e direttrice di Cryptonomist, oltre che Italian PR manager per l'exchange Bitget. E' stata nominata una delle 30 under 30 secondo Forbes. Oggi Amelia è anche insegnante di marketing presso Digital Coach e ha pubblicato un libro "NFT: la guida completa'" edito Mondadori. Inoltre è co-founder del progetto NFT chiamati The NFT Magazine, oltre ad aiutare artisti e aziende ad entrare nel settore. Come advisor, Amelia è anche coinvolta in progetti sul metaverso come The Nemesis e OVER.
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