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Regolamentazione crypto, l’Italia resta indietro

Nel mondo della criptoeconomia, sempre in costante e precipitosa evoluzione, l’Italia rischia di restare al palo, mentre il resto del mondo si muove velocemente verso la creazione di una regolamentazione crypto in grado di definire un assetto normativo chiaro e gestibile per gli operatori.

Il MiCA nell’Unione Europea

Lo sta facendo l’Europa, in corsa per l’approvazione del MiCA (Market in Crypto Asset Regulation): nella seduta dello scorso 14 marzo la Commissione Economica del Parlamento Europeo parlamento europeo ha fatto un altro passo in avanti nella definizione dei contenuti di questo importante corpo normativo, superando l’ostacolo della proposta che mirava a proibire progetti basati sulla proof-of-work, in relazione al tema del consumo energetico e della sostenibilità ambientale.

Il MiCA, quindi, dovrebbe disciplinare solamente tematiche fiscali e regolatorie delle crypto mentre la tematica ambientale correlata al mining sarà lasciata ad un’altra commissione.

L’Europa, quindi, si appresta a munirsi di un quadro di disciplina omogeneo ed armonizzato che mira a fissare uno standard mondiale con una regolamentazione “innovation-friendly”, secondo le dichiarazioni dell’eurodeputato Stefan Berger, presidente della commissione per gli affari economici e monetari.

La parola adesso passerà a Commissione Europea, Parlamento Europeo e Consiglio Europeo.

Cosa accade negli Stati Uniti

Anche gli Stati Uniti, con la firma dell’ordine esecutivo del presidente Joe Biden, si muovono verso una regolamentazione del settore.

Obiettivi dichiarati di tale ordine esecutivo sono quelli di perseguire quella che viene definita “l’innovazione responsabile dei beni digitali”, mediante la ricerca di un equilibrio tra innovazione e tutela di consumatori ed investitori.

Il tutto con un approccio globale che dovrebbe interessare tutti i beni digitali ma anche la futura valuta digitale degli Stati Uniti.

Nel mirino, sei obiettivi chiave: 

  • protezione dei consumatori e degli investitori; 
  • stabilità finanziaria; 
  • perseguimento degli illeciti finanziari; 
  • leadership USA nel sistema finanziario globale e competitività economica; 
  • inclusione finanziaria; 
  • innovazione responsabile.

Dubai vuole essere un crypto hub

Nel frattempo, Dubai si candida a diventare un hub mondiale delle criptovalute, anche attraverso l’adozione di una regolamentazione in grado di fissare regole chiare e gestibili, in grado di agevolare il processo.

Nei giorni scorsi, infatti, è stata approvata una legge sui beni virtuali ed è stata istituita la Dubai Virtual Assets Regulatory Authority (VARA).

Tale agenzia si occuperà dell’organizzazione, emissione e trading con asset e token virtuali; del processo autorizzativo dei provider di servizi correlati agli asset virtuali; fisserà gli standard di protezione dei dati personali; vigilerà sull’operatività delle piattaforme per gli asset virtuali; monitorerà le transazioni per prevenire possibili manipolazioni del mercato.

La prima ricaduta pratica di questo nuovo approccio normativo è che un colosso come Binance ha ottenuto la sua licenza per operare a Dubai e ha firmato un accordo con la Dubai World Trade Centre Authority per supportare nello sviluppo di “un nuovo ecosistema internazionale di asset virtuali”.

Dubai
Dubai vuole essere un hub crypto

Il caso Ucraina

C’è poi il caso particolare dell’Ucraina che, nel dover gestire la situazione di drammatica emergenza bellica, lo scorso 16 marzo ha approvato una legge sugli asset virtuali.

Una legge che certamente è stata adottata sull’onda delle donazioni in criptovalute a sostegno del paese in guerra, che ha rapidamente raggiunto una ragguardevole soglia per il controvalore di circa 100 milioni di dollari, il cui scopo è sostanzialmente quello di agevolare la realizzazione di operazioni e iniziative economiche in criptovalute, all’interno di un perimetro di regole chiare e sotto la vigilanza della Commissione Nazionale Ucraina sui Titoli e il Mercato Azionario.

E l’Italia?

La lista di paesi crypto-friendly, o che, quanto meno, sul piano normativo trattano i crypto asset come un’opportunità, più che come una minaccia, non si esaurisce qui e, anzi, si allunga nel tempo.

E in Italia?

Il quadro di riferimento normativo presenta una serie di rilevanti criticità che, ovviamente, hanno un impatto significativo sulle prospettive di sviluppo del settore economico legato alle crypto-attività.

Innanzitutto (e lo si è scritto più volte su queste colonne), manca qualsiasi disposizione di carattere fiscale dedicata agli asset crittografici, e ovviamente, alle criptovalute per prime. 

La conseguenza è che il tema del trattamento fiscale delle criptovalute, ma anche di altri tipi di asset digitali, come i token emessi nell’ambito di ICO e gli NFT, è affidato completamente all’interpretazione degli uffici dell’Amministrazione finanziaria.

Interpretazione che talvolta è arbitraria e, in alcuni casi, in aperto contrasto con indicazioni che si possono trarre dalle disposizioni legislative.

Basti pensare all’assioma dell’equiparazione delle valute virtuali alle valute estere, ripetuto in tutti gli atti interpretativi dell’Agenzia delle Entrate: un assioma che si scontra, a tacer di tutto il resto, con il dettato, chiaro ed univoco dell’art. 2 del DPR 148/1988 (Testo unico delle norme di legge in materia valutaria) che indica cosa sia da considerare valuta estera (ossia, i biglietti di banca e di Stato esteri aventi corso legale e una serie di titoli e di crediti) che palesemente non hanno niente a che vedere con le valute virtuali. Oppure alla affermazione, priva di qualsiasi spiegazione, secondo cui le criptovalute sarebbero soggette all’obbligo di monitoraggio di attività estere, anche quando le relative chiavi private sono fisicamente detenute in Italia.

Rilevanti criticità, poi, si hanno anche sul fronte della normativa antiriciclaggio: il D.Lgs. 125/2019, nel recepire la V direttiva UE antiriciclaggio, infatti, con riferimento alle valute virtuali, ha forzato la mano nel senso di un’estensione del suo campo di applicazione, al di là delle previsioni della normativa europea.

A complicare la situazione, vi è l’emanazione del decreto MEF chiamato ad attuare l’obbligo di iscrizione nel registro dei mediatori creditizi presso l’OAM di una vasta gamma di operatori nel settore delle criptovalute, gravandoli di onerosi obblighi di comunicazione periodica dei dati di clienti ed operazioni, sotto minaccia di sanzioni importanti.

Un tema anche questo già affrontato. 

Il cronico ritardo dell’Italia nella regolamentazione crypto

Nel frattempo, le proposte di legge per colmare le lacune, ci sarebbero anche, ma è ben difficile che possano essere calendarizzate ed approvate entro la fine della legislatura, con un Parlamento ingolfato di scadenze per la conversione dei molti decreti legge che, in questo periodo emergenziale, hanno caratterizzato particolarmente la produzione normativa italiana.

In cronico ritardo, inoltre, anche le linee guida dell’Agenzia per l’Italia digitale che consentirebbero di attribuire pieno valore legale agli smart contract, così come previsto già dal 2018, dal DL 135, convertito nella legge n. 12/2019.

Ora, è chiaro che tutto questo non rende l’Italia il luogo ideale per avviare un progetto imprenditoriale per immaginare di impiantarvi un’attività basata su crypto asset.

Un progetto di business, per essere correttamente pianificato deve essere fondato su ragionevoli certezze. E purtroppo il quadro normativo in Italia, invece di fornire le certezze che è lecito aspettarsi dalla norma, si comporta come una variabile impazzita. 

Ad esempio, un dato significativo, ormai di pubblico dominio, è che, successivamente all’adozione del decreto sull’obbligo di registrazione al registro presso l’OAM, molti operatori di primarie piattaforme di exchange che avevano scelto di creare branch in Italia, hanno cambiato idea e hanno deciso di abbandonare la prospettiva di operare nel paese, proprio a causa della mancanza di chiarezza delle norme di riferimento.

L’incapacità di mettere insieme un pacchetto di norme sensate, quindi, rischia di farci mancare l’opportunità di inserimento e di sviluppo in un settore che vede un giro d’affari stimato in circa 3 mila miliardi verso la fine del 2021, per le sole criptovalute. E questo, senza considerare il mercato in crescita costante di altri asset, come gli NFT.

Un mercato di servizi commerciali e tecnologici, in cui competenze pregiate possono esprimersi e creare ricchezza senza particolari necessità di infrastrutture, ma contando prevalentemente su conoscenza, creatività ed inventiva.

Tutto questo avviene mentre altri paesi si accingono a colonizzare un settore così redditizio.

Ma dobbiamo perderlo davvero questo treno?

 

 

Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta - The Crypto Lawyer
Luciano Quarta, avvocato tributarista in Milano, managing partner e fondatore dello studio legale tributario QRM&P, ha all’attivo molte pubblicazioni sugli aspetti legali e tributari di legal tech, intelligenza artificiale e criptovalute. Relatore in numerosi convegni sulla materia, tiene la rubrica “Tax & the city” per il quotidiano La Verità e scrive regolarmente per la rubrica Economia e tasse della testata Panorama. È membro della Commissione Giustizia Tributaria presso l’Ordine degli Avvocati di Milano ed è il referente della sede milanese dell’associazione interdisciplinare per lo studio e le applicazioni dell’intelligenza artificiale GP4AI (Global Professionals for Artificial Intelligence).
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