Quello della normativa antiriciclaggio ormai da tempo si va profilando come il fronte più caldo e problematico per chi opera nel mondo delle crypto e degli asset digitali.
Summary
Crypto sotto il mirino della regolamentazione antiriciclaggio
Nei giorni scorsi con un comunicato della Banca d’Italia, ripreso dalle principali testate, è stata diffusa la notizia del blocco di alcune attività di N26: niente apertura di nuovi conti e niente vendita di nuovi prodotti o servizi ai clienti attuali.
Il provvedimento è dovuto al fatto che sarebbero emerse “significative carenze nel rispetto della normativa in materia di antiriciclaggio” e che riguarderebbero principalmente le attività legate alle criptovalute. N26 dal canto suo avrebbe già avviato iniziative per adeguarsi tempestivamente.
Nel frattempo, Coinbase sta cercando di scatenare un mailbombing sul parlamento europeo, per contrastare l’approvazione di una modifica alla proposta di regolamento sul Transfer of Funding, che viene bollata come liberticida.
Nelle sue comunicazioni la piattaforma avvisa gli utenti che nell’ultima versione della proposta presentata al Parlamento sul Transfer of Funding Regulation (per come risulta da una serie di inserimenti e modifiche) è previsto un trattamento deteriore e più restrittivo per le operazioni in criptovalute rispetto alle corrispondenti operazioni in valuta fiat.
Non è esattamente una novità, ma effettivamente la cosa fino ad oggi era rimasta un po’ sotto traccia. Sulla base dell’ultima versione della proposta di regolamento, infatti, ogni transazione in crypto (e non solo quelle sopra la soglia di 1.000 euro, come avviene nel caso delle valute fiat) andrebbe soggetta alla cosiddetta “Travel Rule”.
Questa ‘regola del viaggio’ è prevista dalla raccomandazione 15 del GAFI (Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale, o Financial Action Task Force o FATF) il che, in pratica, implica che le piattaforme di scambio debbano trasmettere una serie di informazioni alle autorità di vigilanza del loro paese di appartenenza.
Inoltre, sarebbe soggetta ad obbligo di segnalazione qualunque operazione in criptovalute, di importo superiore ai €1.000, se effettuata da un wallet “self-hosted”. Ed ancora, sarebbe preclusa la possibilità di dare corso ad operazioni di invio o ricezione da un wallet self-hosted, se la piattaforma non raccolga, verifichi e segnali le informazioni che riguardano quel portafoglio.
Quello a cui stiamo assistendo, è una progressiva quanto inarrestabile stretta della morsa antiriciclaggio sull’utilizzo delle criptovalute.
Il Parlamento Europeo continua a preferire le valute FIAT
Ora, si suol dire che il denaro sia lo sterco del diavolo ma, anche alla luce delle proposte di modifica del regolamento europeo sembra che legislatori e regolatori trattino particolarmente male le criptovalute.
Prima di tutto, non c’è alcun dubbio che le operazioni in crypto subiscano una significativa disparità di trattamento, in pejus, rispetto alle operazioni in valuta fiat.
Le ragioni per cui transazioni crittografiche, anche di entità modesta, vengano sottoposte ad un regime di controllo asfissiante risultano difficili da comprendere, se non in ragione di una diffidenza preconcetta verso le criptovalute.
Una diffidenza preconcetta che, ovviamente, trova la sua leva fondamentale sull’assunto che le criptovalute siano anonime e che, grazie all’anonimato, si prestino a far circolare denaro frutto di attività criminali ed illecite.
Possiamo discutere a lungo su quanto sia corretto affermare che la circolazione delle criptovalute sia del tutto anonima, visto che la blockchain è pubblica e vi restano scolpite immutabilmente tutte le transazioni.
Il punto, tuttavia, è che una disciplina così restrittiva non è coerente con diverse petizioni di principio dichiarate nei vari ‘considerando’ della stessa proposta di regolamento, e contraddice alcuni principi dei trattati che sono strettamente collegati alla tutela della libertà di circolazione dei capitali.
Ad esempio, nel ‘considerando’ 22 della proposta di regolamento si afferma la volontà di:
“Non ostacolare l’efficienza dei sistemi di pagamento e dei servizi di trasferimento di cripto-attività e di controbilanciare il rischio di indurre, a fronte di trasferimenti di fondi o di cripto-attività d’importo esiguo, a transazioni clandestine quale conseguenza di disposizioni troppo rigorose in materia di identificazione.”
A questa intenzione, però, di fatto segue l’imposizione di procedure di identificazione rigorose anche per importi esigui, se eseguiti in criptovalute, ogni qual volta si esca dal recinto di un wallet gestito da qualcuna delle piattaforme.
Tutto questo, si traduce chiaramente in una limitazione della libertà di circolazione dei capitali e della libertà di disporre dei propri beni, che nell’ordinamento europeo sono tutelate dagli artt. 63 e ss. del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e dall’art. 40 dell’Accordo sullo Spazio Economico Europeo (SEE).
Limitazione che non trova una giustificazione o un ragionevole controbilanciamento con esigenze di contrasto ad attività ipoteticamente criminali. Le transazioni di importo ridotto infatti, sarebbero difficilmente riconducibili a fenomeni criminali.
Ma il fatto è che l’associazione tra criptovalute e traffici criminali, alla prova dei fatti, si rivela un falso mito, suggestivo ed efficace, certamente, ma sostanzialmente privo di effettivi fondamenti economici e di fatto.
Tra miti e verità
Ne abbiamo parlato con Massimo Simbula, avvocato, esperto storico di criptovalute e partner di Chainalysis, società che si occupa di contrasto delle frodi ed analizza il mercato delle criptovalute e degli asset basati su blockchain.
In un recentissimo rapporto di Chainalysis emerge chiaramente che:
“A fronte dell’esponenziale crescita negli anni dei volumi e dell’entità delle transazioni in criptovalute l’impiego delle stesse per fini di traffici illeciti, in termini percentuali, non solo è in forte riduzione, ma in sostanza ne costituisce una frazione minima. Per intenderci, parliamo dello 0,15% del volume complessivo delle transazioni nell’anno 2021. Scorrendo i dati, poi, dal rapporto emerge che l’entità in termini assoluti dei volumi di transazioni, tanto per fare un esempio, destinate a finanziare il terrorismo è rimasta più o meno costante nel tempo. Il che a fronte dei vertiginosi incrementi dei volumi complessivi, si traduce oggi in importi trascurabili.”
La lettura del rapporto citato da Simbula, in effetti, è illuminante.

Dalla sua lettura si coglie chiaramente che non stanno in piedi né l’equazione tra criptovalute e traffici illeciti o criminali né lo stigma delle criptovalute come strumento elettivo per l’economia criminale.
Questo, di fatto, sgretola il pilastro alla base della martellante narrazione in cui si giustificano l’espansione della portata delle normative antiriciclaggio, la proliferazione di misure di tracciamento ed identificazione, insomma, in una parola, la crescente quantità di fucili puntati contro le operazioni in criptovalute.
E se questo dato vale con riferimento alla produzione normativa europea vale a maggior ragione per la normativa italiana, sia a livello legislativo che regolamentare.
Al di là di quello che sarà, per effetto dell’approvazione di future normative come quelle che discendono dal MiCA o dal Transfer of Fund Regulation, infatti, già oggi e già da tempo, la normativa antiriciclaggio in Italia è una tacca sopra il quadro di riferimento normativo europeo, soprattutto rispetto alle valute virtuali.
Ad esempio, a livello legislativo la definizione di valute virtuali ai fini antiriciclaggio è più ampia rispetto a quella contenuta nelle direttive europee. Il decreto del MEF che mira a dare esecuzione al recepimento delle norme europee in materia di obbligo di registrazione e di comunicazione periodica dei dati degli operatori che erogano servizi di exchange e di portafoglio digitale, espande il perimetro degli operatori e delle attività sottoposte a questi obblighi largamente oltre le previsioni contenute nelle direttive europee.
I benefici delle criptovalute sull’innovazione tecnologia e finanziaria
Al di là dei molti problemi di allineamento normativo (dei quali si è già scritto diffusamente sulle colonne di questa rubrica), il tema è che non vi è proporzione tra la minaccia effettiva e misure adottate o invocate, e che questa proporzione rischia di generare un effetto strutturale su un intero settore di mercato che, contrariamente a quello che molti percepiscono, e anche alla luce dei numeri stellari che genera, non si esaurisce in un mero vortice di movimentazioni finanziarie, ma anima una vasta gamma di attività produttive.
Attività economiche per lo più caratterizzate dall’impiego di pregiate competenze intellettuali e tecnologiche, che si esprimono in termini di attività di ricerca, sviluppo di software, hardware, comunicazione, e così via.
È importante, quindi, che tutti gli attori coinvolti lavorino per concorrere a sovvertire la corrente narrazione su criptovalute e blockchain e per raffreddare quello che è chiaramente il senso di minaccia percepita e alimentata da chi ha un interesse a limitare e ad imbrigliare la prepotente crescita del settore.