Nel corso di questo 2021 molti miner di Bitcoin sono letteralmente scappati dalla Cina.
Summary
Miner di Bitcoin in fuga dalla Cina
Fino all’anno scorso, compresi i primi mesi del 2021, molte macchine per il mining di Bitcoin erano fisicamente situate in Cina, tanto che si stimava che una percentuale molto rilevante dell’hashrate si trovasse proprio nel Paese asiatico.
Tuttavia va ricordato che i dati riguardanti l’hashrate sono solamente delle stime, quindi imprecise, e che è estremamente difficile sapere con precisione dove siano situate tutte le macchine, visto che molti miner in realtà sono pool formate da centinaia o migliaia di miner che mettono in comune la loro potenza di calcolo da diverse parti del mondo.
Pertanto pur non avendo dati precisi, si è ipotizzato che circa la metà dell’hashrate di Bitcoin in qualche modo potesse essere collegato direttamente alla Cina, con una percentuale ancora maggiore che poteva esservi collegata indirettamente.
Queste percentuali sembrerebbero essere state confermate dal crollo dell’hashrate di Bitcoin seguito alla stretta cinese nei confronti dei miner.
Stando, ad esempio, alle stime di CoinWarz, il 9 di maggio furono toccati i 191 Ehash/s, mentre il 28 giugno erano scesi a 69.
Questa riduzione in parte era sicuramente dovuta anche al calo del prezzo di Bitcoin, passato dai circa 58.000$ del 9 maggio ai circa 34.000$ del 28 giugno, visto che più si riduce il valore di BTC meno conviene tenere in funzione le macchine per il mining.
Ma perché a partire dal 9 maggio si è verificato un crollo del 64% dell’hashrate di Bitcoin in un mese e mezzo, sebbene poi in parte recuperato?
Oltre al significativo calo del prezzo di Bitcoin, c’è anche un’altra ragione: molti miner cinesi hanno spento le loro macchine.
Anzi, a dire il vero hanno proprio completamente sospeso le loro attività di mining.
Infatti, già ad aprile il governo cinese aveva fatto capire che non intendeva tollerare ulteriormente l’enorme consumo di energia dovuto al mining.
I consumi del mining di Bitcoin
Il mining di Bitcoin consuma moltissima energia elettrica, stimata attualmente in circa 152 TWh all’anno.
Visto che buona parte dell’hashrate era situato in Cina, significa che buona parte di questo consumo veniva effettuato nel paese asiatico.
Inoltre solo alcuni miner cinesi utilizzavano fonti rinnovabili, come ad esempio l’idroelettrico, mentre altri utilizzavano elettricità prodotta ad esempio con il carbone.
Al governo cinese piacciono davvero poco i progetti decentralizzati come Bitcoin, che non può controllare e che sta cercando di spianare la strada alla sua valuta digitale della banca centrale, sebbene questa non possa assolutamente essere un’alternativa a Bitcoin.
Il ban del governo cinese, le conseguenze
In buona sostanza il governo cinese, a partire proprio da maggio, ha emesso una sorta di ban rivolto a chi minava criptovalute.
Visto che il potere del governo cinese nel paese è notevole, trattandosi di una nazione non democratica, molti miner hanno preferito non andarsi a cercare ulteriori grane ed hanno prima spento le macchine e poi sospeso a tempo indeterminato l’attività di mining di criptovalute.
Non è detto che il costo di acquisto delle macchine che stavano utilizzando fosse già stato ammortizzato, inoltre questi macchinari invecchiano velocemente, quindi vanno sfruttati fin che risultano essere competitivi.
L’unica soluzione possibile era quella di spostarsi altrove, in modo da poter proseguire l’attività di mining. Basti pensare che il confinante Kazakistan può contare su enormi riserve petrolifere con le quali viene prodotta energia elettrica a basso costo.
Altri sono fuggiti in Canada o negli USA, dove si è verificata una vera e propria impennata del mining di Bitcoin.
A partire da inizio luglio, sempre secondo le stime di CoinWarz, l’hashrate è tornato a crescere, tanto che di recente è persino risalito temporaneamente sopra quota 150 Ehash/s, per poi riposizionarsi attorno a quota 130.
Il livello attuale è ancora di circa il 30% inferiore al picco del 9 maggio scorso, ma ad esempio in linea con i livelli della fine dell’anno scorso. Tuttavia il grosso delle perdite, da questo punto di vista, è già stato recuperato, ed in caso di ulteriore risalita del prezzo di bitcoin è possibile che si possa anche tornare relativamente a breve sui livelli massimi pre-crollo.
È possibile che alcuni miner cinesi in realtà stiano continuando a minare, visto che tra le maggiori pool ve ne sono ancora diverse che risulterebbero aver sede in Cina, ma è innegabile che la situazione attuale sia decisamente differente rispetto a quella dei primi mesi dell’anno in corso.
Sebbene non sia possibile stabilire con certezza quanti miner cinesi abbiano sospeso a tempo indefinito le loro attività, o quanti si siano trasferiti all’estero, è tuttavia possibile immaginare che difficilmente la situazione in Cina potrà tornare quella di prima sul breve termine.